sfide

N.27 Gennaio 2022

RUBRICA

Alla ricerca del film assoluto, «parole nuove agli uomini nuovi»

Viaggio tra le sperimentazioni del cinema astratto che non imita, ma genera una nuova realtà fatta di luce, colore, ritmo, “gioie pure”

Viaggio tra le sperimentazioni del cinema astratto che non imita, ma genera una nuova realtà fatta di luce, colore, ritmo, “gioie pure”

Se esiste una sfida radicale e assoluta, per il cinema, è quella di non raccontare. La rinuncia alla narrazione, a personaggi che suscitano empatia o una qualsiasi forma di coinvolgimento in chi guarda, oppure a storie che si dipanano lungo un arco temporale lineare, confina l’audiovisivo in nicchie limitrofe e marginali rispetto alla percezione comune. Dal film al documentario, al film d’arte… ossia a quelle forme spurie che sottraggono il film alle gratificazioni usuali dell’esperienza del pubblico.

Cinq minutes du cinéma pur (1925) – Henri Chomette

Eppure nel corso del Novecento sono stati numerosi i tentativi di spingere la macchina da presa “au delà”, in territori nuovi e impensati, spesso suggeriti dall’incontro con le arti cugine, soprattutto fotografia, pittura e musica. La fioritura delle avanguardie storiche, nell’Europa degli anni Venti, ha alimentato un grande serbatoio di iniziative e di scambi, di contaminazioni tra linguaggi e forme espressive, con l’obiettivo di abbattere i confini di separazione tra le arti e di spingere il limite oltre la rappresentazione.

Liberare il cinema da tutte le scorie, dai retaggi di teatro e letteratura per riportarlo alle sue origini di “fotografia animata” è stato l’auspicio del “cinéma pur”, una corrente delineatasi all’interno dell’avanguardia francese che utilizzava forme e oggetti per suggerire pure esperienze emotive attraverso i mezzi propri del cinema, dalle inquadrature ai movimenti di macchina, alle forme del montaggio fino ai trucchi e agli effetti speciali.

Rhytmus 21 (1921) – Hans Richter

In modo ancor più estremo, e recependo le intuizioni di cubismo e dadaismo, l’avanguardia tedesca si è spinta fino alla rinuncia alla rappresentazione persino di oggetti ed esseri animati, per concentrarsi su un gioco di forme del tutto astratto. Così Hans Richter, nella sua serie Rhytmus, ha impresso un movimento ritmico a forme grafiche.

Mentre il pittore svedese Viking Eggeling ha creato Diagonal-Symphonie nel quale si susseguono cambiamenti di forme geometriche che si scontrano e vengono giustapposte per poi dar corpo a nuove sintesi: movimenti che sembrano ispirarsi proprio alla struttura delle composizioni musicali. A queste combinazioni dinamiche di forme il regista e sperimentatore Walter Ruttmann ha poi aggiunto il colore, come in Lichtspiel Opus I (1921).

Lichtspiel Opus I (1921) – Walther Ruttmann

È impossibile sintetizzare qui la ricchezza delle sperimentazioni astratte nel cinema. Ma va ricordato che anche in Italia le idee dell’astrattismo si sono diffuse precocemente.

Ad esempio, nell’ambito delle prime esperienze futuriste, i fratelli Corradini hanno raccolto in quattro rotoli di pellicola – oggi distrutti – i loro esperimenti di cinepittura realizzati direttamente sulla pellicola, affettuosamente apostrofati da Corra: “questi figlioletti che mi piaccion tanto col loro musino sporco d’arcobaleno e con le loro piccole arie di mistero”. Ma il sogno di trasferire macchie, forme e colori sulla pellicola, si è consolidato soprattutto negli anni successivi con alcuni grandi maestri dell’astrattismo.

Un brano di Film n. 4 (Studio 40), di Luigi Veronesi

Basti pensare a Cioni Carpi, Elio Piccon o Luigi Veronesi. Di quest’ultimo, pittore, scenografo, fotografo, grafico, la Cineteca Italiana di Milano conserva l’opera che comprende un certo numero di film astratti (realizzati dal 1940 al 1980) come Film n. 4, un esperimento a colori direttamente applicati sulla pellicola il cui montaggio è calcolato sulla base della sequenza di Fibonacci, destinato ad accompagnare l’azione scenica de L’Histoire du soldat di Stravinskij.

E così pure i film n. 5, n. 6, n. 8, sempre astratti ma legati a esperienze sonore; o i film 9 e 13, astratti e incentrati soprattutto sulla successione di forme e colori .
Per spiegare il senso di queste sperimentazioni ci si può affidare alle parole stesse di Veronesi che, nel 1942, proponeva un’analisi del film astratto e assoluto ancora attuale.
«Il film assoluto tien conto particolarmente, a volte esclusivamente, del valore puramente visivo dell’immagine, al di fuori di qualunque considerazione d’ordine sociale. L’artista creatore del film assoluto lavorerà dunque, non a imitare, sia pure perfettamente, la realtà delle cose, ma a creare una nuova realtà: quella della luce, dell’ombra e del colore, suscitatori di emozioni pure, o – secondo una frase di Diderot – di “gioie pure”. Il film astratto, in quanto film assoluto, realizza l’armonia ottico-acustica di: luci-ombre-forme-colori-movimenti-suoni-silenzi, in rapporti di tempo e di spazio tra loro».
Oggi, in un’iconosfera che, grazie al digitale, ha ampliato a dismisura le possibilità di sperimentazione con le immagini, così come allora, il “guadagno” per chi osserva (o contempla?) i film astratti non è cambiato, ed è quello di poter stabilire nuove relazioni percettive con le immagini che offrono una nuova consapevolezza dei loro rapporti spazio-temporali. Si tratta di un esercizio estetico straordinario, se solo ci si abbandona ad esso. Perché, come concludeva (profeticamente) Veronesi, «i film assoluti, proiettati singoli o simultaneamente, nello spazio, su schermi multipli, trasparenti, su piani differenti, su schermi di sostanze gassose – fisse – permeabili ai suoni ed ai corpi, diranno parole nuove agli uomini nuovi» .