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N.35 Novembre 2022

RUBRICA

Tra social e cinema, la memoria in “prima persona”

Dai gruppi whatsapp della famiglia ai reportage sulle migrazioni, le immagini e la forza emotiva dei ricordi possono passare attraverso una molteplicità di canali, ma è sempre il filtro dell'esperienza, diretta o interpretata fedelmente, l'ancora di salvezza della "paura di dimenticare"

Frame tratto da "To whom it may concern", documentario di Zakaria Mohamed Ali (Vimeo)

Il digitale e le tecnologie alla portata di tutti hanno enormemente ampliato il range di quello che è normalmente considerato cinema dallo spettacolo di finzione proiettato in sala a una molteplicità di formati, generi, temi e narrazioni.
L’audiovisivo, sganciato dalla necessità di rispondere a estetiche spettacolari, si fa portavoce di svariate istanze di registrazione, documentazione, memoria… Così l’utilizzo personale di formati video (e audio) amatoriali ha reso possibile registrare e conservare materiali che ci sono cari. Feste, celebrazioni e ritrovi vengono solennizzati da immagini – trattenute nella memoria del telefono o postate su instagram – o da filmati che raccontano eventi indimenticabili da conservare. È un racconto del sé, quello che ne deriva; un racconto fatto di istanti, di oggetti, di persone, di situazioni che formano il nostro album della memoria, disponibile alla consultazione ogni volta che lo desideriamo.
La messaggistica istantanea (whatsapp in testa) contribuisce poi ad attivare una rete di scambi tra singoli oppure gruppi. Nessuna famiglia si priva di una chat in cui, oltre ai messaggi di servizio, ci si scambiano immagini o video di momenti che riguardano i membri della famiglia stessa e del suo perimetro: compleanni, vacanze, esperienze particolari… Una produzione pressoché infinita di ricordi prêt-à-porter, quasi amuleti – o antidoti – per i momenti più tristi. Riguardare e riascoltare le parole dei parenti che ci sono mancati, o i video di bambini che crescono rapidamente, ci radica in vissuti affettivi di grande intensità che ci tengono legati nel tempo.
Man mano che le reti sociali si allargano (ai gruppi di lavoro, di mamme della scuola, di amici del calcetto, di membri di un’associazione…), la nostra identità trova una conferma e un radicamento, ma alleggerisce, al tempo stesso, il legame emotivo. Se, da un lato, mi riconosco (e sono riconosciuto) come parte dei membri di un determinato contesto, nel ricevere video e immagini provo sentimenti di coinvolgimento meno forti. Spesso, a distanza di anni, sopravviene una nostalgia che mi porta a ritrovare quelle immagini, quei video, e a desiderare di rivivere momenti del passato, rafforzando la relazione ma soprattutto il ricordo autobiografico.

Ma la voce non tradisce
La voce distingue l’atto del parlare
da quello del “essere parlati”

Non vi è dubbio, come da tempo sostengono i memory studies, che i media – i personal media e quelli più tradizionali – siano dei formidabili mediatori di memorie, ossia dei dispositivi in grado di ancorare il presente al passato e di formulare rappresentazioni sociali condivise. Essi agiscono attivamente, come ricorda Paolo Jedlowski, non solo “dal basso” (come i video amatoriali e di famiglia), ma anche pubblicamente nel forgiare le nostre memorie sociali e collettive, nel definire il ricordo di eventi che abbiamo attraversato come società: come non ricordare il ruolo giocato dalla tv nel racconto dei fatti del tragico 11 settembre 2001 o, per richiamare il passato recente, le prime fasi della pandemia.
C’è però una differenza fondamentale tra le memorie audiovisive private e pubbliche che riguarda la voce. Se le memorie personali o dei gruppi in cui siamo inseriti sono sempre raccontate in prima persona, o da voci che noi riconosciamo e della cui identità siamo certi, le memorie pubbliche si pongono quasi sempre in terza persona.
In nome di chi parlano allora questi mediatori di memorie? E quale memoria costruiscono?
Sono gli studi culturali a suggerire la necessità di porci questa domanda ogni volta che affrontiamo le forme di rappresentazione, e tanto più quelle che riguardano gli audiovisivi.
Perché è frequente che sia uno sguardo esterno a posarsi su ciò che si intende documentare (il “ritratto” postula una mano esterna). Ma la voce non tradisce. La voce distingue l’atto del parlare da quello del “essere parlati” da qualcuno.
È un atteggiamento rispettoso della prima persona quello dei progetti che ricostruiscono le cosiddette “memorie migranti”, ossia diari anche filmati delle migrazioni – in qualsiasi modo si siano svolte – che vengono raccolti con una duplice finalità. Da un lato quella di preservare una memoria, individuale e collettiva ma prodotta direttamente dai protagonisti, di esperienze di sradicamento e di perdita (di radici, tradizioni, legami, …). Dall’altro per operare una narrazione differente capace di incidere sul piano del dibattito pubblico.

Nei volti, nelle storie, nei vissuti delle persone che raccontano i loro viaggi c’è una “grana” inconfondibile che è quella dell’esperienza. Di una necessità che testimonia come – secondo il verso di Gibran posto in esergo al video – «c’è un andare nel mio restare e un restare nel mio andare».
L’esperienza della migrazione, per chi la affronta, e per le reti familiari e sociali che la subiscono, è una realtà fatta di buchi, di vuoti: quelli del luogo di origine, che è privato della presenza di chi se ne è andato, e quello del punto di arrivo, che non è sempre in grado – per cultura, storia, inesperienza, ecc. – di riconoscere le specificità di cui è portatore il migrante.

Per questo la memoria diventa essenziale. Un atto di resistenza, di ricostruzione di frammenti che si oppongono all’oblio e al vuoto di esperienze di privazione, di cancellazione.
Ma la memoria ha bisogno di una voce che la “autentichi”, di un racconto audiovisivo che preservi l’importanza della prima persona.
Per chi ne è autore, e per chi la ascolta, questa memoria in prima persona è una voce – flebile – che opera un altro racconto, capace di spiegare e approfondire la narrazione impersonale (e spesso parziale) della cronaca. Ma è sempre una narrazione reale, che lega tutti al motivo più vero per cui costruiamo memorie personali, familiari e collettive: la paura di dimenticare. La voce della perdita e della speranza è una voce che parla attraverso il volto e l’esperienza (ma anche l’autorità) di chi può raccontare dicendo “io”.