musei
N.25 Novembre 2021
Nel regno dell’oro matto la bellezza brilla per tutti
Al Museo del Bijou di Casalmaggiore il mestiere delle mani si intreccia all'industria per creare bellezza e renderla accessibile Una storia di idee, lavoro e creatività che ha caratterizzato il secolo d'oro della città
Per brillare non serve l’oro, basta l’oro matto. E il suo regno è a pochi passi da noi: a Casalmaggiore, la città del bijou. Lo si intuisce appena si mette piede in territorio casalasco, grazie al monumento di Brunivo Buttarelli. A convincerci poi, ci pensa il museo dedicato, allestito nelle cantine dell’ex Collegio Santa Croce, un edificio costruito dai padri Barnabiti verso la metà del diciottesimo secolo. Lì il mestiere delle mani si intreccia all’industria per creare bellezza: «Questo è ciò che Casalmaggiore è stato dalla fine del 1800 agli anni ’70 del secolo scorso».
Letizia Frigerio oggi dirige il museo. Racconta un pezzo di storia di un paese che non ha compreso fino in fondo la grandezza di ciò che stava costruendo. «Almeno fino a quando tutto è finito».
In museo sono esposti dai 25 ai 30 mila pezzi: bracciali, cinture, collane, oggetti sacri. Prima delle teche, una vetrinetta contiene la foto di Giulio Galluzzi: «Nel 1882 è riuscito a realizzare il suo sogno e ha cominciato a scrivere la storia». Il suo sogno si chiama placcato oro. «Una lamina sottile di metallo su un’altra lamina sottile di metallo non prezioso». Come a dire: basta poco per fare la differenza. «Si affida a metodi meccanici. Con la tecnica dello stampo produce e vende». La sua sigla “GG” viene esportata fino in Brasile. Da semplice artigiano ad industriale, deve presto fare i conti con la concorrenza: si formano in breve la Società Federali Orefici e l Placcato Maffei. Nel 1926 le tre realtà uniscono le forze e fondano le Fabbriche riunite placcato oro.
Tutto è documentato dai carteggi, dalle macchine, dalle valigette, dai cataloghi. L’obiettivo è solo uno: vendere. «Ci si adegua alle richieste del mercato, soprattutto se provenienti dal regime fascista: a Casalmaggiore vengono prodotti i primi distintivi del regime». Il legame tra la produzione ed il Fascismo è tanto forte da decretare la fine del bijou casalasco, almeno nei suoi anni d’oro, con la conclusione della Seconda guerra mondiale. «La produzione viene riconvertita: prima con occhiali da sole e poi con apparecchi audiovisivi della Emerson». I segni ci sono. In vetrina «spicca un prototipo di radio». Poco più in là i primi occhiali che imitavano quelli usati dai piloti e poi «quelli per bambini, con le aste dai colori differenti».
Il tempo passa, la moda cambia. La storia resta.
«Il nostro è stato un vero e proprio distretto della bigiotteria italiana, ma nel 1980 i bijoux erano considerati chincaglieria, non oggetti intorno ai quali costruire un museo». Creato dall’allora sindaco Antonio Gardani nel 1986, questo luogo «vuole celebrare la storia dell’artigianalità». In tutte le sue evoluzioni. «Il bijou è nato per imitare i gioielli in oro, per rendere la bellezza democratica, accessibile a tutti. Ha cercato anche di raccontare vari aspetti del vivere sociale». Negli anni ’20 i primi gemelli, «rigorosamente singoli perché più leggeri da trasportare in lungo e in largo per l’Italia», erano dedicati agli sport. Accanto, spille da lutto in finta filigrana, portarossetto, portacipria, fermacravatte. «Il bijou era ed è un compagno di vita quotidiana per tutti». Un accessorio che non fa mostra di sé, ma delle personalità di chi lo indossa. «Dona sicurezza, dona nuova luce».
Oggi, come ieri. «Alla fine della seconda guerra mondiale arrivavano a Casalmaggiore vagonate di Swarovski. Dopo il buio della guerra era il tempo di tornare a brillare. Lo dicevano le dive di Hollywood e, con i bijoux indosso, potevano farlo tutti».
Gli influssi dal mondo condizionano le mode. «La verità è che la moda non ha mai smesso di copiare se stessa. Osserva e ripropone: è il gioco del mercato. Si adegua per continuare a camminare». La produzione spazia dagli oggetti per il turismo, ai gioielli per le colonie africane, fino alla galalite. «Un suggerimento giunto da Milano, emblematico di un pensiero che cambia. Dalla metà del ‘900 il bijou non è più imitazione, ma pura creatività. Rappresenta la possibilità di lavorare un materiale anche povero e di perderci».
É la libertà di rischiare, dopo un periodo di costrizioni. Il tempo passa. E il lavoro si adegua. «Casalmaggiore negli anni ’70 si rende conto di essere rimasta indietro da tutti i punti di vista e sceglie di ripartire dai materiali». Il sogno di Galmozzi finisce. Si conclude l’era del placcato oro. Si usa l’alluminio anodizzato con una placcatura ottenuta attraverso il bagno galvanico. «Era una procedura più facile che accontentava tutti. In fondo il bijou vuole strappare un sorriso, in modo semplice». Senza troppe pretese. A partire dal desiderio di fare arte con poco.
«Qui ospitiamo anche laboratori per le scuole. Stimoliamo la creatività e scopriamo con i piccoli i mestieri manuali. Non possono andare persi: sono quelli che ci hanno reso grandi». Nella sala attigua è allestita la mostra Dolce color d’oriental zaffiro: le gemme in Dante e nei bijou americani, a cura di Maria Teresa Cannizzaro e Fiorella Operto: «Saranno ospiti a Casalmaggiore sabato 27 novembre». Vogliono raccontare «la grandezza degli italiani che in America, armati esclusivamente del loro talento, hanno fatto fortuna. Dante lo insegna: per fare cose grandi bastano grandi doti».
Il percorso della visita ci riporta all’ingresso. Accanto a Galluzzi si intravede un pannello. «È la mappa in Braille per le persone cieche. Possono toccare i materiali e farsi un’idea delle teche grazie alle scritte appositamente realizzate». Il progetto, creato in collaborazione con la sezione cremonese dell’Unione italiana ciechi ed ipovedenti, si chiama Gioia tra le dita. «È un modo ancora differente per raccontare la storia. Oggi della tradizione bigiottiera casalasca non resta più nulla: l’unico che sul milanese porta avanti l’attività del padre Giugurta, è Claudio Calestani».
Il museo oggi custodisce bellezza, di nome e di fatto. «Anche in un periodo buio ricorda che tutti possiamo brillare. O forse tornare a splendere».