casa
N.17 Gennaio 2021
Casa dolce casa… comune
Una riflessione di don Bruno Bignami sulle responsabilità di tutti verso la Terra che abitiamo a partire dalle encicliche di Papa Francesco
Il sottotitolo dell’enciclica Laudato si’ (2015) di papa Francesco ruota intorno a tre parole che iniziano con la lettera C: “sulla Cura della Casa Comune”.
La metafora della casa esprime il nostro rapporto con la terra e porta la riflessione su un tono familiare. La casa è luogo di vita. È a misura delle persone. Rende abitabile il mondo. Senza casa saremmo alla mercé di chiunque e non avremmo punti di riferimento: vivremmo spaesati, appunto. È la C di “casa” quella che fa capire il senso dell’impegno ecologico in favore del pianeta che abitiamo. Non si tratta di una novità, se troviamo nelle parole “ecologia” ed “economia” la stessa radice greca di oikós, che significa casa. L’uomo ha bisogno di una casa per vivere, che è data dal clima, dalle condizioni di vita e dalla qualità delle relazioni.
Ecco il punto: la casa non è mai solo un luogo fisico: è trama di rapporti umani che rendono quel luogo vivibile e familiare. Dal posto che non è casa, si fugge. Nessuno rimane sotto i bombardamenti di una guerra in attesa di tempi migliori. Si scappa per cercare rifugio altrove.
I vangeli dell’infanzia di Gesù raccontano che l’omicida Erode obbliga Giuseppe e Maria alla fuga in Egitto. Il loro paese non è più casa. Ci torneranno in tempo di pace. L’episodio biblico riassume il dramma umano di popolazioni, gruppi, famiglie e persone nel mondo. Tragedia che si ripete sotto i colpi di ogni guerra e di ogni dittatura che cancella la libertà umana. Nella casa c’è pari dignità e libertà. È proprio la pace a fare di un luogo una casa: uno spazio di fraternità dove sentirsi “a casa”. Se regna la pace, vi sono le condizioni perché vi sia una casa. Per questo, le encicliche sociali di Francesco, Laudato si’ e Fratelli tutti, vanno lette in continuità.
Il mondo, però, non è una casa qualsiasi: è casa comune. Per quanto si vogliano distinguere i confini, sono più visibili e concrete le interdipendenze tra un popolo e un altro, tra un Paese e il suo confinante, rispetto alle distanze e alle differenziazioni che possono esserci. Il pianeta è casa comune perché spazio vitale per tutti. Per l’uomo non è possibile vivere se non in stretto legame con la Terra, che ha un microclima particolare, che ha presenza di acqua potabile sufficiente a garantire la vita, che possiede ricchezze straordinarie per consentire la sopravvivenza. Se alterassimo alcuni equilibri, non ci sarebbero più le condizioni per la vita umana sulla terra. Tutti abbiamo bisogno di questo ambiente per vivere. Ciò significa aprire gli occhi alle connessioni. L’aria che respiriamo travalica i confini territoriali. I cambiamenti climatici coinvolgono tutte le latitudini. Lo sfruttamento delle risorse è impoverimento generale. Le deforestazioni riducono i polmoni per tutti i popoli. Inutile pensarsi attraverso logiche sovraniste: l’interdipendenza nella differenza è la vera sfida della fraternità. Perciò, la “casa comune” si contrappone a “casa privata”. Se ognuno guarda al suo orticello, la sfida di “coltivare e custodire” (Gen 2,15) la terra non ha futuro. Tra privato e comune ci deve essere relazione e non indifferenza. La proprietà privata, lo insegna la dottrina sociale della Chiesa, è al servizio del bene comune. È spazio di libertà per esercitare la condivisione e la comunione. Non è un assoluto che sancisce l’isolamento. Abitare la casa comune esige, dunque, una conversione culturale nel sapersi pensare, agire, progettare come “noi” e mai come “io”. Lo esigono le regole stesse della casa.
Da ultimo, la Laudato si’ coglie nella cultura della cura l’atteggiamento giusto perché la casa sia custodita e valorizzata. Per la verità, il primo capitolo dell’enciclica mette in guardia dai drammi che attanagliano la casa comune: ciò che sta accadendo in negativo chiama tutti a un cambio di paradigma. La terra, infatti, è maltrattata e offesa da un modello antropologico sbagliato: l’antropocentrismo dispotico. L’uomo, cioè, si pensa come dominatore incontrastato: calpesta, maltratta e sfrutta, finendo per inquinare e degradare. In realtà, la casa è affidata nelle nostre mani capaci di responsabilità. Così rifletteva nel 1945 in Diario di una primavera don Primo Mazzolari, costretto forzatamente al nascondimento nella stanza della canonica di Bozzolo durante la Seconda guerra mondiale: «Forse tante nostre infelicità derivano da questo mancato accordo con la natura, come se noi non fossimo partecipi di essa. Tutto si tiene, ed accettare di vivere in comunione non è una diminuzione, ma una pienezza».
Solo la cura consente di evitare il deterioramento continuo e graduale del pianeta terra per assumere stili di vita all’altezza del dono ricevuto. Ogni casa, infatti, non è sempre uguale a se stessa. Necessita di manutenzione. Va protetta e chiede la capacità di ripensarla alla luce di nuove esigenze. Ogni architettura sottende una progettualità di relazioni: se costruissimo solo monolocali, sarebbe l’apoteosi dell’individualismo. Se invece privilegiamo spazi aperti, ciò è segno che intendiamo promuovere la relazionalità. Insomma, non esiste un solo modo di abitare la terra. La casa è in evoluzione e in trasformazione a seconda del modello di umanità che si vuole vivere. Per questo, la cura della casa comune è un investimento culturale. È progetto in cui tutti siamo coinvolti.
Casa, dolce casa comune.