casa

N.17 Gennaio 2021

MEDIO ORIENTE

Cosa posso chiamare casa tra le macerie di una guerra

Sotto le tende dei rifugiati cristiani del Kurdistan iracheno Nel monastero di Homs dove i bambini trovano un sorriso oltre le ombre della persecuzione

Autunno 2014, Iraq
L’Isis da tre mesi controlla una vasta piana del Nord dell’Iraq, dopo aver ucciso, saccheggiato case, distrutto scuole, università, monasteri, moschee. L’area, abitata prevalentemente da cristiani e da yazidi, è irriconoscibile. Chi è riuscito a scappare si è rifugiato in un’enclave detta Kurdistan iracheno, nel nord-est del Paese. Migliaia di giovani, invece, sono dispersi sulle catene montuose che circondano la piana di Ninive. Non torneranno a casa.
«Cosa posso chiamare casa?». A parlare, con sguardo serio, è una ragazzina di nome Myriam. L’ho incontrata in un campo profughi alla periferia di Erbil, capitale del Kurdistan, mentre con i suoi genitori approntava sotto la pioggia e tra il fango una cena di fronte alla sua tenda. Gli jihadisti le avevano portato via tutto: la casa della nonna dove vivevano tutti insieme, il pollaio del nonno e le galline che lei – tornando da scuola – curava e conosceva una a una. A mancarle è la scuola, anche quello un pezzetto di “casa”, di quotidianità che non esiste più. Nel campo – dove mancano acqua, gas e luce, tollerati in un’area del Paese dove si parla solo curdo e i cristiani non sono ben visti – i ragazzi che un tempo frequentavano le scuole superiori si sono messi a disposizione per aiutare i più piccoli con piccole attività scolastiche: matematica, disegno, storia. Le mamme, invece, cercano di organizzarsi per tenere pulito. Questa è la cosa che mi ha commosso di più. Ogni santo giorno che Dio mandava in terra, quelle donne si arrabattavano perché anche quelle tendone di plastica o i container potessero essere comunque un luogo di bellezza.
L’acqua razionata e garantita da Unicef diventa così un bene prezioso per bere, lavarsi, cucinare ma una parte – piccolissima – quelle donne la tengono per poter pulire. Hanno creato delle ramazze con rametti trovati qua e là, scarti dei piccoli falò che la sera vengono accesi per non crepare di freddo. E con quelle ramazze spazzano il fango, spazzano la polvere, spazzano e spazzano e spazzano… finché un po’ del dolore che hanno in petto non si quieta. Molte di loro hanno visto morire per mano dei terroristi i mariti, i figli, i genitori anziani. Altre hanno subito violenze che fa male anche solo mettere per iscritto. Eppure anelano alla bellezza, la cercano, la desiderano per sé e per i propri figli.

E così quelle piccole tende diventano casa. Una casa dove ogni piccola cosa diventa dono immenso: una tanica di acqua in più, la visita di un’infermiera o di un sacerdote, l’ong che regala quaderni e penne ai bambini, una coperta calda per la notte. Tutto diviene avvenimento. Come il presepe allestito nella tenda dei rifugiati, in quel Natale del 2014 dove tutti i profughi iracheni si sentivano così vicini al Bambinello: per loro nessuna casa, nessun fuoco caldo, porte chiuse, difficoltà. Solo la certezza incrollabile che quel Dio fattosi uomo non li avrebbe lasciati soli.
Sono passati sei anni da allora. Molti sono tornati nelle case oggi liberate dopo la sconfitta dell’Isis, altri hanno dovuto ricostruirle, altri ancora hanno scelto di abbandonare il Paese per sempre. Ho sentito Myriam, che ha cominciato l’università nella capitale. Vive ancora con i genitori e la nonna. Il nonno non c’è più. «Ma abbiamo ricostruito il pollaio e anche gli alveari. Le api sono tornate a ronzare e a fare il miele».
E lei è a casa.

Febbraio 2020, Libano e Siria.

Don Federico Celini, parroco di Sospiro, viaggia tra Siria e Libano per portare un’icona della Vergine, benedetta dal Papa, come segno di vicinanza alle popolazioni colpite dalla guerra. In Libano visita un orfanotrofio gestito dai maroniti ad Harissa, una vera e propria casa di accoglienza per oltre 300 ragazzi dai 4 ai 18 anni rimasti soli. Il Paese dei Cedri è al collasso e ancora, un anno fa, nessuno poteva sapere che il covid avrebbe aggiunto orrore all’orrore. Lo stesso vale per Homs, città martire siriana, dove la distruzione è totale. «Siamo arrivati lì in pieno inverno. Il clima era spettrale: palazzi sventrati, strade distrutte. Io alloggiavo nel convento dei gesuiti. Quei cinque frati hanno dimostrato un calore umano inimmaginabile nonostante le condizioni proibitive: elettricità che andava e veniva, mancanza di riscaldamento o di acqua. Ma a questo convento facevano riferimento un gruppo di ragazzini che ogni giorno, sbucando dalle macerie, venivano lì per giocare e stare insieme aiutati da un giovane gesuita che animava e condivideva con loro il suo tempo. Ecco, ho sperimentato come questa casa dei gesuiti fosse realmente un avamposto di cristianità, di testimonianza, di frontiera, di verità e di altezza spirituale. La sera quando ci siamo trovati con questa luce fioca, fatta dal generatore, mi sono trovato nella situazione dei monaci di Tibhrine (sette monaci trappisti uccisi nel 1996 in Algeria): ho sperimentato una condivisione unica, in un contesto devastato dalla brutalità contro la fede cristiana».
Eppure quei frati rimangono lì, accanto all’umanità impaurita e ferita che abita ancora quella città devastata. E insieme a loro anche il convento di suore – non lontano – ha continuato ad accogliere ragazzi disabili o orfani durante tutto il periodo di guerra.
Ecco, le case. Non solo quattro mura solide a proteggere le nostre intimità e comodità, ma dei volti umani precisi. Delle braccia che accolgono, rincuorano, consolano, danno fiducia nel futuro anche quando sembra che l’unico futuro da attendere sia la prossima bomba.
Della guerra in Siria non si parla più, ma i gesuiti continuano la loro opera. La loro casa è aperta. È per tutti.

Libano e Siria, i progetti di solidarietà

Da diversi anni la Caritas Cremonese sostiene “Oui pour la vie”, un’associazione di volontariato con sede a Damour in Libano, legalmente riconosciuta, impegnata in favore dei più poveri di ogni appartenenza religiosa e provenienza.
Il responsabile è padre Damiano Puccini
I volontari di “Oui pour la vie” sono impegnati nella consegna di alimenti e medicine. Il nuovo centro di “Oui pour la vie” a Damour ha cominciato a pieno ritmo le sue attività, in particolare per l’assistenza sanitaria e i test diagnostici offerti da infermieri volontari.
La Fondazione Madre Rosa Gozzoli di Cremona sostiene 120 famiglie, ridotte alla miseria dalla guerra, dalla crisi finanziaria, dalla emergenza sanitaria ed abitativa, fornendo loro il necessario per vivere, grazie ad aiuti di benefattori di Italia, Belgio, Francia. Il referente è Padre Charbel Eid, coordinatore per la Siria e l’Irak per conto della organizzazione internazionale “Aid to the church in need” (Aiuto alla Chiesa che soffre).
Gli aiuti della Fondazione sono scaturiti dal viaggio in Siria e Libano del prete diocesano cremonese don Federico Celini (nella foto), a seguito della icona “Maria, Madre dei dolori, Consolatrice del popolo siriano”, benedetta da Papa Francesco perché fosse portata in pellegrinaggio, come segno di vicinanza e presenza, nelle varie diocesi del Paese.