mattoni
N.55
Case popolari. La forma e l’esistenza
Sono veri e propri monumenti contemporanei, cattedrali urbane, essenziali, spesso inosservate ad uno sguardo poco attento, fin tanto da non essere compresi. Si stagliano nella loro fierezza di cemento, una molteplicità di occhi che guardano all’interno di una periferia «che disegna sé stessa con tocchi geometrici»
“Case popolari” nel 2013 è stata la prima esposizione del cremonese Leonardo Calvi, classe 1988, nato il giorno di Natale, talentuoso fotografo, da sempre innamorato del concetto di architettura in tutte le sfumature.
Le sette fotografie dedicate a quattro grandi edifici popolari realizzati a Trieste, Brescia e Milano inquadrano da una prospettiva molto profonda l’essenzialità dell’abitare urbano del Nord Italia: «In un quartiere popolare ci sono cresciuto, marginalmente nelle case di edilizia agevolata. Da bambino abitavo a Borgo Loreto. Questo tipo di edilizia è diventata argomento di studio. Chi svolge la professione di fotografo documentarista tende a vedere le cose come uno studioso. Ultimamente i problemi sono tanti e non si parla più come un tempo di diritto alla casa. Mi piaceva dedicare a questo argomento non tanto una attenzione sociologica, quanto uno sguardo. Volevo osservare la forma di questi edifici, cercando di astrarla senza pensare realmente a cosa fossero. La mia è stata una ricerca puramente estetica, di imponenza, geometria, colore».
Il progetto vive anche una parentesi berlinese e la seconda parte è la traduzione in tedesco, Sozialwohnung, di case popolari: «A Berlino è durato circa sei mesi ed è stato ragionevolmente più facile perché le periferie sono quartieri di casone dove vivono seicento mila abitanti. In Italia per trovare soggetti fotograficamente interessanti devi percorrere tanti chilometri».
«L’edilizia popolare è parte
della vita della nostra società.
Occorre trattarla con dignità,
come fossero dei monumenti»
Nel tempo questo lavoro, come racconta Calvi, «è stato un percorso anche interiore. Inizialmente non me ne ero reso conto. Sono partito, ingenuamente, cercando l’immagine, senza rendermi conto degli aspetti storici, politici, sociali. E soprattutto personali, gli ultimi che capisci. Oggi non sarei quello che sono senza il progetto “Case popolari”. Ho compreso come mi stia a cuore il tema, a cui mi sono approcciato con rispetto, anche se questa affermazione potrebbe essere essa stessa irrispettosa. L’edilizia popolare è parte integrante della vita della nostra società. Occorre trattarla con dignità, come fossero dei monumenti». “Case popolari” ha rappresentato anche uno stacco col passato: «Dalla mostra in poi, ho passato cinque anni a cucinare. Avevo bisogno di soldi. Mi sono ritirato nelle mie stanze, ho fatto tonnellate di fotografie, ma non ho pubblicizzato nulla. Se guardo ora al progetto dico che mi piace. Allora – ma da sempre, e non è un discorso costruito – la fotografia non era e non è tanto una passione, non necessariamente un istinto, ma l’urgenza di prendere in mano una macchina fotografica. Ho sempre avuto chiaro quale fosse la mia idea di fotografia. Ricordo ancora un episodio: da bambino, a otto anni, insieme ai miei genitori, ci imbattemmo in un cavallo bianco in una vallata piena di alberi. Mi resi conto avesse le briglie. Non rappresentava un cavallo bianco a spasso per la montagna ma una persona che possiede un cavallo bianco. L’immagine non mi piaceva».
Per Calvi il tema dell’abitare, però, è da sempre oggetto di attenzione, personale e professionale: «La fotografia dell’architettura è parte della mia vita. Un qualcosa a cui ho pensato giorno e notte. Nell’abitare la differenza la fa il disordine: uno spazio abitativo rappresenta un ordine privato delle persone che quello spazio lo vivono. Gli oggetti fuori posto sono vitalità dell’abitare. La personalità di qualcuno che si impossessa dello spazio è incomprensibile per gli altri. La casa è un contenitore, poi sono le deviazioni dalla norma a farci capire che qualcuno ci abita davvero. Non vorrei mai trovare una vasca da bagno in cucina, non vorrei essere frainteso. Ma abitare, nella mia visione, è una collezione di regole infrante».