viaggio

N.32 Giugno-Luglio 2022

MISSIONE

Cercatori della speranza sulla rotta Burundi-Italia

Paolo Carini ha lavorato in un ospedale della missione di Kiremba. Oggi racconta i viaggi con Callisto, Beatrice e Leocadie, bambini della sua missione che hanno acquistato il loro primo paio di scarpre per volare oltre il Mediterraneo nella speranza di una cura

Callisto

Eravamo tutti un po’ perplessi. Callisto, un quindicenne burundese, stava provando le scarpe che non aveva mai messo e che però gli sarebbero servite per il viaggio in aereo. Dalla maniera con cui si muoveva -sembrava camminare su dei trampoli – avevamo capito che ci sarebbe voluto del tempo per abituarsi. Ma come sarebbe stato l’impatto con l’aereo, avrebbe avuto troppa paura? Alcuni anni prima, Callisto era caduto sulle braci con la faccia: si era rovinato il viso, ma in qualche modo era guarito. Solo all’apparenza, però, perché si erano chiuse le ghiandole lacrimali e stava per diventare cieco. Il trasferimento in Italia, il primo al quale avevo collaborato, era nella speranza di salvare la vista che gli restava.

In quel periodo, settimana di Natale 1996, era venuto a trovarmi mio papà. Da persona previdente quale era, si era premurato di scrivere su un foglietto, la traduzione di alcune frasi in Kirundi per potere dialogare con Calllisto e rendersi conto se ci fosse qualche problema. In quell’anno, il viaggio verso l’Italia partiva da Kigali, la capitale del Rwanda, perché quella del Burundi era sotto embargo per il golpe militare. Ma tutto sommato, arrivare a Kigali dalla missione di Kiremba, non era poi così disagevole. Callisto si era comportato bene per tutto il viaggio. Alla frontiera non avevamo avuto problemi – non come quell’altra volta con il medico napoletano che si era inventato di scattare qualche foto al confine… – ed eravamo arrivati all’aeroporto di Kigali con un certo anticipo.

Seguivamo sempre con una certa curiosità Callisto, soprattutto dopo che l’aereo era atterrato e si mostrava ai viaggiatori dalla vetrata. Ma fin lì, il ragazzo non aveva mostrato segni di timore. Alla scaletta dell’aereo, però aveva detto una frase in Kirundi. Il papà aveva preso il foglietto delle traduzioni, ma quella frase non era contemplata. Nemmeno io avevo capito (a quel tempo potevo giustificarmi che ero in Burundi da pochi mesi). Callisto aveva detto: “ndasonge”.

Ma sul foglietto, proprio non c’era. Il papà era smarrito, del resto ce l’avevano detto: andare sull’aereo, per Callisto, equivaleva ad un viaggio in astronave per noi. Nell’emergenza, ci aveva aiutato una suora burundese che era due passi dietro. Callisto aveva detto semplicemente: “ho fame”.

Quel viaggio è finito come meglio non si poteva sperare. Callisto era stato sottoposto ad un paio di operazioni, senza che producessero particolari miglioramenti nel viso, ma era stata ripristinata la funzione di umidificazione della ghiandola lacrimale, per cui era stata salvata la vista che gli rimaneva. Nel Veronese, era stato ospite di una comunità Papa Giovanni XXIII e aveva imparato l’essenziale dell’italiano. A distanza di anni, lo parlava ancora discretamente. Era stato subito assunto dall’ospedale in officina, di certo perché sponsorizzato dai volontari, ma anche perché proveniva dalla collina di Mugerera, tradizionalmente abitata da fabbri ferrai. Si era sposato e aveva avuto dei bambini.

Andare sull’aereo,
per Callisto,
equivaleva ad un viaggio
in astronave

Il secondo viaggio della speranza che ricordo, ha riguardato una bambina di 12 anni. Si chiamava Beatrice ed era affetta dal sarcoma di Burkitt, una forma tumorale che colpisce al viso e che gradualmente sposta naso e bocca. Beatrice è deceduta dopo l’operazione chirurgica ed è sepolta al cimitero di Legnago. Di lei ricordo che era stata accompagnata dalla mamma, due ore di cammino dalla sua collina per raggiungere l’ospedale. E ci aveva sorpreso, allacciandosi il primo paio di scarpe che si era provata: era stato suo papà, che non c’era più, a farla imparare. Appena arrivati in capitale, in attesa del volo, aveva indossato un paio di shorts, come se fosse in vacanza. Mentre all’agenzia mi avevano chiesto di farla uscire per non disturbare, con il suo stato, gli altri clienti. Non l’avevo accompagnata sul volo, era stata presa in consegna da Antonio Navarro, radiologo di Legnago. Sono certo che anche lui non l’avrà dimenticata. La mamma di Beatrice era tornata a Kiremba, dopo qualche mese, per vedere su una videocassetta le immagini del funerale.

Locadie

Nel 2009, ero tornato in Burundi, in un centro agropastorale all’avanguardia nella diocesi di Muyinga. Una volta alla settimana tornavo all’ospedale di Kiremba per un controllo sulla contabilità e accompagnavo le persone che dovevano essere visitate. Ogni tanto dovevo discutere con le persone che trasportavo perché non potevo prendere in carico le spese mediche di tutti. Un giorno, mi portano a vedere una bambina piccola, da far visitare. Oh no, mi dico: un altro caso di sarcoma di Burkitt. La bambina si chiama Leocadie, ha 7 anni, viene da una collina a un paio d’ore di strada. C’è una zia paterna che sarebbe disposta ad accompagnarla in Italia, ma resto a lungo incerto sul da farsi perché è troppo vivo il ricordo di Beatrice. Prepariamo i documenti di viaggio di entrambe e iniziamo la trafila per il visto, perché la Poliambulanza di Brescia si dichiara disposta ad aiutarla. Ma sono comunque indeciso mentre il tumore procede nella sua azione progressiva. C’è un episodio che mi fa decidere. Suor Carla, la suora che verrà ferita alle mani in una drammatica rapina del 2011, ci chiede di dare un passaggio a un bambino, dal bivio di Gatobo fino all’ospedale di Ngozi. Di solito non c’è ragione di farlo, è una coincidenza particolare. Quel bambino è affetto da un tumore alla mascella, in fase terminale. Il puzzo che emana è fortissimo. Mi dico: Leocadie farà la fine di Beatrice, ma forse in Italia, patirà meno dolore. Decidiamo di partire e quando lo facciamo Leocadie è già in condizioni critiche. Lo scanner dell’ambasciata del Belgio che rilascia il visto, non la riconosce come figura umana. La funzionaria, Sylvie, si scusa per averci obbligato a quell’incombenza. La zia paterna, che accompagna Leocadie, è convinta che non le rimangano più di due settimane di vita.
Alla Poliambulanza di Brescia, la sottopongono subito a chemioterapia. Non la toccano chirurgicamente, come invece era avvenuto per Beatrice. In un paio di giorni si compie un miracolo: il tumore si sgonfia. La bambina è sottoposta a un trattamento fuori protocollo, poi ad altri cicli di chemioterapia. Reagisce sempre bene mentre va in crisi psicologica la zia. Dopo alcuni mesi, Leocadie torna in Burundi, incredibilmente guarita. A Bujumbura la portiamo a salutare la funzionaria dell’ambasciata belga che si commuove. Dopo un anno di scuola senza buoni risultati e con una salute che diventa problematica, Leocadie torna a Brescia, accolta da Walter Gomarasca, attuale direttore della Poliambulanza che l’aveva seguita sin dal primo momento. Gli anni passano senza ricadute, adesso ha da poco compiuto 19 anni e studia in una scuola professionale. L’anno scorso è potuta tornare in Burundi a salutare la mamma e a conoscere i nuovi fratellini. La mamma è contenta che sia in Italia.