viaggio

N.32 Giugno-Luglio 2022

RUBRICA

Dal gran tour di Rossellini alla Sicilia di Montalbano

Viaggio cinematografico nell'Italia delle meraviglie: dagli scavi di Pompei sotto i tacchi di Ingrid Bergman alle indagini tra le strade dell'immaginaria (ma realissima) Vigata, passando per l'omaggio di Scorsese ai registi del Belpaese

La scena degli scavi di Pompei nel “Viaggio in Italia” di Roberto Rossellini (1954) con Ingrid Bergman e George Sanders / youtube

Estate. Giorni di tempo libero, da nutrire con vacanze e con viaggi. Itinerari verso destinazioni ignote o familiari che costruiamo attentamente, pregustando il piacere di un allargamento dello sguardo, in cerca di paesaggi diversi da quelli che scandiscono la rassicurante familiarità della vita ordinaria.
L’Italia, con la sua grande varietà di climi, di territori e scenari, la sterminata ricchezza di arte e cultura, di vestigia storiche e di tradizioni folcloriche detiene un ruolo di prim’ordine nelle mete di viaggio. Fin dal XVIII secolo curiosità e interesse hanno spinto i nobili e gli eruditi a intraprendere il grand tour dal lontano Nord fino alle coste partenopee e talvolta siciliane. Oggi, nell’epoca dell’accessibilità, assistiamo a una miriade di piccoli tour compiuti da orde di turisti che battono palmo a palmo con qualsiasi mezzo la penisola alla ricerca di distrazione, di emozioni e di conoscenze da portare a casa come un bottino.
Anche il cinema e la fiction entrano sempre più spesso nelle mete di viaggio, dando luogo a un fenomeno (per la verità ancora poco sviluppato in Italia) noto come “cineturismo”, per cui vengono visitati i luoghi immortalati sullo schermo. Ben sapendo che si tratta spesso di luoghi inesistenti, come la celebre Vigata del Commissario Montalbano, città immaginaria ricreata attraverso vari set siciliani (LINK).

Ma il cinema conosce altri modi per viaggiare. Per esempio nel 1954 Roberto Rossellini realizza un’opera divenuta nel tempo una pietra miliare della storia del cinema, Viaggio in Italia. Il film ruota intorno a una coppia di turisti inglesi benestanti – Katherine (Ingrid Bergman) e Alex (George Sanders) Joyce – i quali, giunti a Napoli, al cospetto di un ambiente per loro nuovo, così tenacemente radicato nella storia, nella cultura artistica e in un paesaggio antropologico unico come quello meridionale, prendono poco a poco coscienza della loro identità, della crisi matrimoniale che stanno vivendo e di ciò che costituisce per loro una ragione di vita. L’allontanamento da casa e il viaggio diventano condizioni fondamentali per la successiva scoperta del mondo e, di riflesso, di sé. L’estraneità iniziale della coppia inglese rispetto a usi e costumi, così come all’ambiente, accende la capacità di vedere e il desiderio di capire, ossia di fare esperienza. In tal senso il film, fin dal titolo, recupera la tradizione del grand tour aggiornandola al secondo dopoguerra, e a condizioni di vita completamente nuove che suscitano il bisogno di una nuova ricerca di senso, particolarmente urgente dopo lo strappo di una guerra lacerante (come quella civile consumatasi in Italia) e alle soglie di una modernità destinata a stravolgere le tradizioni di un mondo ancora sotto diversi aspetti arcaico.

La memoria di questo film e del relativo viaggio rivive a distanza di quasi mezzo secolo grazie a Martin Scorsese il quale – dopo aver compiuto un itinerario lungo la storia del cinema americano nel centenario della nascita (A Personal Journey with Martin Scorsese Through American Movies, 1995) – decide di dedicare un altro ampio affresco di circa quattro ore alla cinematografia italiana con Il mio viaggio in Italia (1999), un titolo che omaggia apertamente Rossellini.
Ma è nell’aggiunta dell’aggettivo “mio” che si può cogliere il significato della relazione tra le due opere. In primo luogo perché esso denota l’autorialità di uno dei più grandi registi viventi: Scorsese può scegliere il suo itinerario con l’assoluta certezza di essere un punto di riferimento per gli spettatori perché è riconosciuto, grazie alla sua ricca carriera, come un vero maestro, dallo stile e dalla poetica personali che si stagliano su un cinema così fortemente standardizzato come quello americano.
“Mio” si riferisce però anche a una dimensione personale e affettiva: Scorsese continua la riflessione sulle sue origini già intrapresa con Italianamerican (1974). Solo che qui non si tratta più del dialogo con i genitori su usi e tradizioni italiani che contribuiscono a rafforzare la sua identità di figlio di culture differenti. Ne Il mio viaggio in Italia Scorsese dialoga direttamente con i grandi registi che hanno fatto la storia del cinema italiano, collocandoli nella prospettiva di una risonanza emotiva con il suo lavoro. L’itinerario del suo viaggio segue dunque la via della cultura cinematografica italiana di cui rivendica il magistero e alla quale sente di appartenere.
Spostando l’asse dalla dimensione spaziale a quella temporale, Scorsese testimonia come il tragitto possa riguardare il tempo, e dunque trasformarsi in un viaggio à rebours. Roma, Napoli, Milano e la Sicilia sono filtrate attraverso l’occhio del cinema: lo spazio inquadrato diviene un paesaggio capace di attivare contatti con un tempo altro, con uno sguardo differente che ha messo in forma personaggi, ambienti, racconti, per farne un patrimonio identitario. Scorsese racconta, rielabora, annodando tra loro le sequenze dei più grandi maestri del cinema italiano, da Visconti a Fellini, da Rossellini ad Antonioni, Blasetti o De Sica.

Prima parte del documentario “Il mio viaggio in Italia” di Martin Scorsese / youtube

Soprattutto il regista è consapevole che la memoria di un viaggio non si possa limitare al “cosa”, ossia a ciò che si vede, ma riguardi necessariamente anche il “come” e il “perché”, vale a dire l’insieme di motivazioni, il contesto, le persone che ci accompagnano. In questo modo la memoria familiare si arricchisce anche della visione comune dei vecchi film italiani in televisione, nel corso di piccole cerimonie familiari di celebrazione identitaria, della cui importanza il regista si avvede a distanza. E capisce che forse proprio a queste visioni familiari deve la sua vocazione alla regia.

Facciamo buon viaggio, allora. Senza rinunciare a itinerari che comprendono ciò che vediamo, le narrazioni che ci alimentano, il senso che ne traiamo e l’intimità affettiva con coloro che condividono le nostre esperienze di spettatori. Buon viaggio, in compagnia del cinema che amiamo.