gemme

N.58 marzo 2025

rubrica

Di gemme, perle, cristalli e “immagini-cristallo”

Di pietre preziose, al cinema, se ne sono viste – e se ne vedono – parecchie, solitamente legate al
personaggio femminile che le indossa, avendo cura di metterle bene in vista, per trasmettere precisi
significati. Si tratti di stabilire la natura regale della protagonista (come la Cleopatra interpretata da
Elizabeth Taylor nel film omonimo diretto da Joseph L. Mankiewicz nel 1963), o quanto meno uno
status elevato, conseguito magari dopo un fidanzamento (come in Pretty Woman, 1990, di Gary
Marshall). Oppure, come insegna la commedia sofisticata, alludono al processo di corteggiamento e
alla disponibilità della donna a esserne destinataria, mantenendo così le immagini all’interno di
quella parvenza puritana richiesta dalle consuetudini del cinema hollywoodiano degli anni Trenta. È
il caso di Kay Fancis, nel ruolo della ricchissima Madame Colet, che in Mancia competente
(Trouble in Paradise, 1932, di Ernst Lubitsch) mostra al suo segretario Herbert Marshall (in realtà
un ladro dai modi raffinati) di cui è innamorata, tutte sue armi seduttive, esibendo in primo piano la
preziosa collana di perle.


O ancora costituiscono un puro oggetto di piacere femminile, come racconta in modo estremamente
coinvolgente Audrey Hepburn nell’incipit di Colazione da Tiffany (Breakfast at Tiffany, 1961, di
Blake Edwards) quando, dopo essersi fatta accompagnare dal taxi davanti alla nota gioielleria,
sbocconcella una brioche specchiandosi nella vetrina sulle note trascinanti di Moon River.

È facile enumerare i numerosissimi esempi di film che mettono in valore le pietre preziose, facendo
leva sull’appagamento dato dalla ricchezza conseguita dai protagonisti, che si somma
all’appagamento offerto allo spettatore dal film come veicolo del desiderio.
Ma per capirne il significato più profondo occorre fare un salto di natura teorica. Quarant’anni fa, il
filosofo Gilles Deleuze redigeva un prezioso dittico di volumi nei quali – per usare una spiegazione
sommaria che non rende certo merito all’acutezza del pensiero dell’autore – ripercorreva il secolo
del cinema mettendo in luce due logiche predominanti che lo attraversavano: da una parte la
preminenza dell’azione nel guidare le logiche narrative, esperibile in particolare fino al cinema
classico (L’immagine-movimento); dall’altra invece la prevalenza di immagini svincolate da logiche
causa/effetto e maggiormente volte a investigare la natura della temporalità (L’immagine-tempo)
come condizione che consente di esplorare il senso stesso delle immagini, dell’esperienza, della
memoria, frutto anche della grande stagione cinematografica della modernità che si estende dal
neorealismo in avanti. Deleuze impiega un concetto ancora più stringente per svelare la natura più
profonda dell’immagine-tempo: quello dell’immagine-cristallo. Come il cristallo è caratterizzato da
una pluralità di facce che possono essere guardate singolarmente, spesso con l’aiuto di una
particolare lente, ma che nel complesso, poste l’una vicina all’altra, danno luogo a una visione
indistinta, così il tempo, nella duplice dimensione di presente e passato, coesiste nell’immagine-
cristallo: «Distinti, ma indiscernibili, tali sono l’attuale e il virtuale [n.d.a.: virtuale nel senso non
odierno ma in quello di possibile, o mentale]
che non cessano di scambiarsi. Quando l’immagine
virtuale diventa attuale, allora è visibile e limpida come nello specchio o nella solidità del cristallo
perfetto», mentre l’immagine attuale rinvia ad altro, invisibile, opaco e ancora tenebroso «come un
cristallo appena estratto dalla terra» [Gilles Deleuze, L’immagine-tempo, Einaudi, Torino 2017, p. 84 (1ª ed. 1985)] . Per fare un esempio molto chiaro si può ricordare – e lo fa anche Deleuze che la commenta dopo qualche pagina – la celeberrima sequenza della galleria degli specchi che conclude La signora di Shanghai (The Lady from Shanghai), film diretto e interpretato da Orson Welles nel 1948 in cui molteplicità di superfici brillanti e riflettenti come gli specchi rifrange la pluralità delle identità dei protagonisti, sovrapponendone il presente e il passato in un’inestricabile coesione.

C’è da chiedersi, allora, se queste immagini-cristallo, come “immagini che riflettono” (su se stesse e
sul film, racchiudendone in un certo modo il senso profondo), non si possano scovare anche altrove,
per esempio persino nella vetrina di Tiffany in cui si specchia Audrey Hepburn, prima menzionata.
Per chi conosce la trama, in effetti la sequenza iniziale contiene in nuce il tema centrale del film: la
forte attrattiva della ragazza verso i gioielli, metafora della ricchezza che va “comprando” attraverso
avventure con uomini possibilmente ricchi, e la vetrina che la separa da questi, a significare
l’insieme delle frustrazioni che la allontanano dall’oggetto desiderato. Ma nella vetrina vi è anche il
riflesso della protagonista, che rimanda all’idea di una personalità “fantasma” ancora da mettere a
fuoco, stretta tra alcuni affetti sicuri – quello per il fratello a cui è legata e che perderà nel corso del
film o per il suo gatto – e la difficile ricerca di un uomo da amare sinceramente.

Ma in questa sequenza anche la musica lavora attivamente a costruire il significato complessivo. La
melodia di Henry Mancini, semplice e insieme malinconica, risponde all’elegante e solo apparente
spensieratezza della protagonista; più avanti, cantata dalla stessa Hepburn accompagnandosi alla
chitarra con la sua voce leggera, o in alcune variazioni strumentali, segnerà le fasi
dell’innamoramento con l’affascinante Paul. Le parole di Johnny Mercer, intraducibili senza
spogliarle del loro significato, rimandano a un misto di nostalgia e rimpianto per una condizione
infantile, probabilmente fatta di complicità emotiva con il fratello. Così anche Moon River diventa,
nell’accezione che le ha dato Phil Powrie [Phil Powrie, Music in Contemporary French Cinema. The Crystal Song, Palgrave Macmillan, Basingstoke, Hampshire 2017] , una “crystal song” perché, come l’immagine di Deleuze, veicola un senso ulteriore, questa volta di carattere emotivo, di tale intensità affettiva da superare il referente sul piano visivo, e da portare lo spettatore a un livello di sospensione che eccede la temporalità narrativa, dove passato, presente e futuro si incontrano e convivono.
Dell’efficacia di questa lettura si può avere una controprova attraverso un altro celeberrimo film che
parla di gioielli, Gli uomini preferiscono le bionde (Gentlemen Prefer Blondes, 1953 di Howard Hawks). Lorelei Lee e Dorothy Shaw, interpretate rispettivamente da Marilyn Monroe e Jane
Russel, sono due donne affascinanti che esibiscono due concetti antitetici dell’amore e del ruolo
della figura maschile. Mentre la mora Russel è in cerca dell’amore sentimentale e passionale, la
bionda e pragmatica Monroe, sotto un’apparente patina di dabbenaggine, nasconde un sicuro e
convinto interesse per la stabilità economica, quando non la ricchezza, di cui i gioielli rappresentano
la massima espressione. Ed è a uno dei numeri più travolgenti e famosi del film – la canzone
Diamonds are a Girl’s Best Friends, scritta da Jule Styne e Leo Robin – che è affidato a Marylin il
compito di rimarcare il messaggio: la finalità del potere seduttivo di una donna è quella di
assicurarsi la propria indipendenza.

Alle donne degli anni Cinquanta, in un momento di conquiste sociali volte a ottenere una maggiore
indipendenza, Marilyn dichiara cantando che

Un bacio può essere magnifico
ma non pagherà l’affitto
nel tuo umile appartamento
o ti aiuterà
a un distributore automatico.
Gli uomini si raffreddano
man mano che le ragazze invecchiano
e alla fine perdiamo tutte il ​​nostro fascino.
Ma di taglio quadrato o a forma di pera
questi minerali non perdono la loro forma:
i diamanti sono i migliori amici di una ragazza!

L’ironia del numero musicale ci ricorda che “immagine-cristallo” e “crystal-song” sono due chiavi
di lettura per estrarre dal film – anche quando non parla di gioielli – il suo prezioso valore
comunicativo.