frontiere
N.12 Giugno 2020
RITRATTI
Fronte unito anti-covid
Non dimenticheranno i volti e la gratitudine dei pazienti, quelli guariti e quelli sconfitti dal Covid. Ricorderanno gli sguardi scambiati con colleghi di sempre e nuovi compagni di reparto. Oggi all'Ospedale di Cremona ci si può prendere il tempo di gettare un sguardo ai mesi trascorsi sul fronte, senza dimenticare la fatica e il dolore. Senza ignorare la paura che non abbandona. «Ciascuno - dicono tutti - ha fatto la sua parte». E anche qualcosa di più.
Vedevo le barelle ovunque, fino all’atrio degli ascensori, con persone che non respiravano. Non avevano fiato eppure ringraziavano Dicevano: «Se può… Quando può…» E non si lamentavano, loro, nemmeno dopo giorni di attesa. Quando poi li accompagnavo in reparto spingevo le loro barelle in corridoi che sembravano sempre più lunghi con tutte le porte chiuse… tutto infetto. Non so, poi, a quante tac ho assistito: «positivo» «positivo» «positivo»… Se sapessi davvero cos’è successo qui terresti la mascherina anche per dormire
La cosa che ci ha provato di più è stata le gestione dell’emotività di fronte ai pazienti spaventati e soli Sei un medico, ma in quel momento ti accorgi di rappresentare il tutto a cui il paziente si aggrappa per non perdere la speranza. E ti trovi a dover parlare di situazioni gravi ai famigliari solo attraverso il telefono: la loro voce si rompe e tu sai di dover essere chiaro cercando di portare conforto Alla fine poi, ringraziandoci continuamente, erano loro stessi a darci la carica anche per affrontare il ritorno alle nostre, di famiglie: la paura di portare a casa il virus, il distanziamento e la mancanza del contatto nella nostra dimensione più personale
È stato quando ho sentito persone lamentarsi per la chiusura del bar che ho deciso di far entrare per la prima volta una telecamera in un reparto di terapia intensiva. Era il momento di far capire quello che davvero stava succedendo qui dentro Il pensiero del limite è stato quasi ossessivo di fronte ad ogni scelta, in bilico tra il rispetto e la necessità di documentare il dramma e il valore delle persone che stavano lavorando. E provare a creare anche un ricordo bello… Quando il violino ha suonato sul tetto, la musica È arrivata nelle stanze e sotto le tende: l’esperienza della bellezza è servita per attraversare il dolore senza cedere alla disperazione.
La riabilitazione è stata riconvertita come reparto di medicina e abbiamo dovunto reinventarci Ci è mancato il lavorare pensado al “dopo”: riabilitare significa preparare il paziente al suo ritorno a casa secondo un programma ma con il Covid non avevamo piani. Né cure. Mio marito è stato in terapia intensiva e per un mese all’ospedale di Varese: capisco l’angoscia di un famigliare che chiama in reparto per avere informazioni. In fondo ci vuole poco a scambiare due parole. E magari avviare una videochiamata; quando ho rivisto il viso di mio marito dopo tanti giorni di paura è stato bellissimo
In meno di un mese abbiamo assunto più di cento tra medici e infermieri Ho sentito giovani medici ringraziare noi per l’opportunità di dare una mano e pensionati rimettersi a disposizione: il nostro ospedale è stato visto come un luogo di bisogno anche da chi veniva da lontano. I nostri operatori sono stati definiti “eroi” e forse è proprio così: hanno affrontato una situazione a cui nessuno li aveva preparati. Ora mi auguro che le istituzioni decidano di incentivare l’accesso alla professione: sia per gli specialisti negli ospedali sia per valorizzare la medicina del territorio
Mascherine, camici idrorepellenti, tute protettive, visiere… materiali che di solito non usavamo sono diventati indispensabili per salvare vite. E lo sono ancora: non torneremo alla “normalità” che conoscevamo Ci siamo messi a girare in macchina bussando ai negozi del territorio. Abbiamo passato giornate intere al telefono e quando all’ospedale Oglio Po è venuto a mancare del materiale abbiamo caricato il furgone e siamo partiti per portarlo di persona. Cosa ci ha insegnato questa esperienza? A lavorare per prevedere le crisi.
Quando usciva il medico entravamo noi per la sanificazione La stanza era vuota, purtroppo e sapevamo che una persona era stata trasferita in terapia intensiva oppure non ce l’aveva fatta. In quel momento ti chiedi: «Ci sarà ancora il virus, qui dentro» E non ti resta che dare il massimo per sanificare ogni singola superficie. I pavimenti restavano opachi: sembrava brutto, ma era giusto così
In pratica la Chirurgia non c’era più. Siamo tornati ad essere medici nella forma più essenziale in cui il cardine resta nel rapporto tra medico e paziente. Eravamo di fronte a una malattia nuova da cui non si guarisce con una medicina: dovevamo prenderci cura del paziente per metterlo nelle migliori condizioni possibili per fronteggiare l’infezione È stata l’occasione di riscoprire quella parte di umanità che spesso la frenesia ci fa dimenticare E per imparare che non basta pensare di proteggere propria salute, ma che ciascuno di noi può farsi carico della protezione di tutti gli altri.
