forma
N.14 Ottobre 2020
La forma di un’anima
Un artista si interroga sul senso dell'arte E lo incontra dove la vita scorre inaspettata
Il suo sguardo pulito e ingenuo iniziava a dare i primi segni di cedimento. Una ciocca mossa, di un biondo lucido, cadeva carezzandole la parte destra della fronte fino a coprirle l’occhio azzurrissimo. Le labbra sottili e carnose rimanevano dischiuse, quasi indecise se liberare un soffio o uno sbadiglio. Nel modo esatto in cui doveva essere. Accavallò con gesto sinuoso la lunga gamba destra sulla sinistra.
«Ferma, per favore!» Eugin passò un delicato colpo di pennello a definire il riflesso della luce sulla curvatura del ginocchio roseo. «Abbiamo quasi finito» la rassicurò. Pochi altri colpi di polso, per ridare espressione, e l’opera era finita.
Abituata alle sessioni di scatti per riviste come Vogue e Cosmopolitan, le era sembrata un’assurdità quella di posare per un dipinto, benché lui godesse già di una certa fama. Aveva ceduto di fronte all’insistenza e all’offerta di una cospicua somma.
«Posso?» chiese con voce ondulante.
Eugin annuì.
La modella si alzò dallo sgabello e si avvolse nella vestaglia di seta.
«Grazie.» Eugin le andò incontro e le baciò il dorso della mano. Era più alta di lui di trenta centimetri buoni. «Dove sarà esposto?» gli chiese indicando la sua figura eterea impressa sulla tela.
Eugin non rispose. La superò e prese uno straccio dal tavolo dei pennelli. Tornò pulendosi i polpastrelli coperti dal colore secco e si mise a fissare l’opera.
«Ci penserò.»
«Qualcosa non va?»
«No è che… non sono sicuro d’aver trovato quello che cercavo.»
Lei si voltò infastidita, si rivestì in fretta e lo salutò con finta distrazione prima d’uscire.
Eugin si mise davanti al quadro. Fece due passi indietro, poi altri tre. Tornò a pochi centimetri e si inginocchiò. Si carezzò pensieroso la barba che ormai arrivava al pomo d’Adamo. Lunghe striature la coloravano di grigio e bianco. Tolse gli occhiali, prese la tela e la sollevò sopra la testa. La lasciò cadere sfondandola sullo schienale della sedia che traversò l’opera squarciando l’immagine della dea. Strappò e lacerò restando con pochi brandelli tra le mani. Rimise gli occhiali e uscì.
«Vuoi dirmi cosa succede?»
«Niente» Eugin versava lo zucchero piegando la bustina aperta sopra la tazza. Appena l’ebbe svuotata ne prese un’altra.
«Insomma, che figura ci faccio io? Ci pensi?»
«Digli che ci sto lavorando sopra.»
«È da quasi un anno che ci stai “lavorando sopra” e non mi dai niente. Gli espositori non sono così pazienti.»
«È che non riesco a trovare quello che cerco.» Prese un’altra bustina e cominciò a versarla nella tazzina.
«La galleria di Venezia ci aveva fatto un’ottima proposta.»
Eugin fissava i granuli bianchi sparire nel liquido nero. «Ne faranno altre.»
Tomaso lo fissò contrariato. «Ci sono artisti là fuori che pagherebbero per avere le occasioni che ti ho creato io.»
«Cosa vorresti dire?» Prese la terza bustina tra il pollice e l’indice e la scosse avanti e indietro prima di aprirla e travasare.
«Non ti sembra di esagerare?»
«Esagerare?»
«Ti sei montato un po’ troppo la testa, non credi? Insomma, ok che sei Eugin Saccardi. Ok che hai esposto anche a New York. Ma ricordati che è stato possibile anche grazie ai miei contatti e alla fiducia che ho costruito negli anni. Se ti metti di traverso… non so!»
«Sarebbe una minaccia?»
«Sarebbe una constatazione. Oggi un artista ci mette poco a diventare famoso e ci mette ancora meno a ritornare nel nulla.»
«Il nulla!» Gli occhi di Eugin si riempirono di vivacità. «Bravo, il nulla. Questa è una bella questione.»
Tomaso sbuffò.
«Cosa credi ci sia dentro?» riprese Eugin tornando alla tazzina.
«Il caffè?»
«Dentro di noi. Di me, di te.»
«Non lo so, gli organi?»
«Quelli ok, ma poi?»
«Cosa c’è? Dimmi, ti ascolto.» Tomaso incrociò le braccia.
«Secondo te, l’anima è disciolta?»
«Fammi il piacere, va.»
«Io non credo. Ma come si fa a vederla se non ha forma? Non riesco a trovarla.»
«Secondo me dovresti riprendere a lavorare seriamente.»
«È quello che sto facendo.»
«Sì?»
«Sì.»
Tomaso si alzò frugò nella tasca e mise delle monete sul tavolino. «Mi dispiace dovertelo dire ma ho ricevuto telefonate, capisci? Pressioni. Hai un mese per farmi un’opera, se non lo fai ti mollo e dovrai cercarti un altro agente.»
Vagava senza meta già da qualche ora per le vie del centro. Uomini eleganti, giacche scure e tweed, abbandonavano studi e uffici per recarsi a passo spedito, chi verso casa, chi verso ristoranti eleganti. Eugin s’era sempre sentito estraneo a quel mondo, anche dopo aver raggiunto il successo.
Voltò l’angolo e incrociò lo sguardo mendicante di un clochard sdraiato a terra. Un letto di cartone a ripararlo dal gelo del cemento. Senza dire nulla, frugò nella tasca e prese una banconota da cinquanta euro. La strinse nel pugno e gliela posò davanti.
Lui facendo finta di nulla, la fece sparire mentre Eugin passava oltre e girato l’angolo si fermava a osservarlo.
Rimase a spiarlo per quasi due ore. Il clochard non parlava, si limitava a mostrare la mano chiedendo la carità. Alcuni facevano cadere monete, altri passavano distratti. Verso le nove e mezza il clochard si alzò, recuperò il cartone e abbandonò l’anfratto nel quale era stato piegato. Eugin sbucò da dietro il muro e cominciò a seguirlo. L’uomo, ingobbito nel cappotto nero, percorse diversi chilometri verso la periferia. Fece sosta a una mensa dove si mise in fila dietro ad altri senzatetto. Eugin riuscì a mettersi in coda dietro di lui. Raggiunsero il banco e l’uomo si fece incartare una pita e dell’arrosto di tacchino in un piatto di plastica. Uscì e riprese la strada. Eugin sempre dietro. Raggiunse l’imbocco di un cavalcavia e scese a lato.
Eugin approfittò dell’oscurità per avvicinarsi. Lo vide seduto di fianco a un bidone di ferro dal quale sbucavano lingue di fuoco. Vicino al clochard una ragazza, avrà avuto si e no sedici anni, cullava in grembo una bambina. Vide il clochard aprire l’arrosto e porgerlo alla ragazza. Lo vide anche frugarsi in tasca e darle la banconota da cinquanta euro e altre monete raccattate. L’uomo distese le mani sul fuoco e se le stropicciò scaldandole. Rimase per quasi un’ora prima di riprendere il cammino. Gli sfilò di fianco senza nemmeno vederlo e risalì sulla strada. Eugin allora si avvicinò alla ragazza e si sedette vicino. «Fa freddo» le disse.
Lei lo guardò impaurita.
«Che bel bambino, è tuo?»
La ragazza strinse a sé il piccolo e si scostò.
«Non ti faccio niente. Anzi…» Prese il portafoglio dal quale estrasse altre due banconote da dieci euro e gliele porse.
Lei guardò i soldi stranita, alzò gli occhi su lui e rapida agguantò i venti euro facendoli sparire.
«Come si chiama?» domandò Eugin indicando il bambino.
«Anaïs, ma a lei che gli frega?»
«Ah, una femminuccia.» Si fece più vicino e riuscì a vedere il viso della piccola; gli occhi, gocce rapite dal più freddo degli oceani, spiccavano nel visino che aveva il colore della terra arida di un paese lontano. Anaïs sbadigliò mostrando due incisivi bianchissimi e solitari. «Di dove siete?»
«Cosa vuole?»
«Niente, fare due chiacchiere.» Eugin si soffiò nelle mani chiuse a pugno. «Allora, di dove siete?»
«Armenia.»
«È tua figlia?»
La ragazza annuì.
«E quanti anni ha?»
«Tre, ma non parla.»
«Mi spiace. E l’uomo che vi ha portato da mangiare, chi è?»
«Mio padre.»
«Capisco. Come si chiama?»
«Bagrat.»
«Dove è andato adesso?»
«È tornato in centro, a cercare soldi. Noi ne abbiamo sempre bisogno.»
Eugin annuì. «Grazie.» Lasciò ragazza e bambina e tornò a casa.
Verso le quattro del mattino il cellulare poggiato sul comodino di Tomaso cominciò a vibrare. Pieno di sonno, si girò nel letto e lo afferrò. Lo schermo illuminava il nome di Eugin.
«Sì?» rispose intontito e controvoglia.
«Butta tutto.»
«Eh?»
«Quello che ho fatto, le mie opere, buttale. Sono inutili.»
«Ma cosa stai dicendo?»
«È finita, Tom.»
«Hai ripreso con la droga?»
«Mi è capitato davanti quello che cercavo da sempre. Non dipingerò più.»
Tomaso si alzò mettendosi a sedere sul bordo del letto. «È uno scherzo?»
«Nient’affatto.»
«Di cosa stai parlando?»
«Non ha più senso andare avanti. Butta tutti i quadri, non valgono un accidente.»
«Sei pazzo, Eugin.»
«Me ne vado. Cancella il mio numero e non cercarmi.»
«Ti rendi conto di quello che mi stai facendo?»
«Sono sicuro che troverai altri artisti più bravi di me.»
«Questo è certo!»
«Mi dispiace, è stata una bella esperienza, ma non posso continuare credimi.»
«Non ti capirò mai.»
«Lo so, faccio fatica anche io a starmi dietro.»
«Senti, perché non ti riposi un po’? Domani mi chiami e ne parliamo con calma.»
«Non c’è domani, Tom.»
«Allora hai deciso?»
«Sì. Addio.»
Tomaso rimase immobile, col cellulare in mano e con la linea che suonava a vuoto nelle orecchie.
Verso metà mattina, dopo aver disdetto tutti i contratti ed essersi scusato con galleristi e critici ricevette una lettera. Non aveva indirizzi, il mittente era venuto lì e l’aveva infilata direttamente nella sua casella.
La aprì. Un foglio con disegnato sopra lo schizzo a matita di una bambina tra due braccia vicina ad un bidone di fuoco. Girò il foglio e lesse una scritta dietro;
Per te diceva, non capirai ma forse ho intravisto la forma che a volte può prendere l’anima. Stavolta era una bambina armena, muta.
Con affetto, Eugin.