acqua
N.09 Marzo 2020
Lungo il fiume con Ermanno Olmi
Rispetto al mare e ai laghi, superfici di grandi dimensioni che evocano sentimenti di quiete e di permanenza, il fiume manifesta il dinamismo dell’acqua che scorre. Lo spettacolo dell’incedere inarrestabile della corrente, caro alle popolazioni che abitano in riva al “grande fiume”, forse ne ha plasmato il carattere. Dalla terra, dagli argini ci si può arrischiare, senza paura, a guardare ciò che si muove con un senso di sicurezza e protezione: la calma consapevolezza che – come recita il motto di Eraclito – tutto scorre.
Diversa è la prospettiva di un regista sensibile e originale come Ermanno Olmi. La sua scoperta del Po, avvenuta in tarda età e su insistente consiglio di un amico, si trasforma in una familiarità affettuosa, che si esprime in un documentario prodotto per la Rai nel 1992, Lungo il fiume.
Il suo sguardo sul fiume non è più quello della contemplazione distaccata dalla riva, ma un viaggio avventuroso dall’interno delle acque lungo l’intero percorso del Po, una sorta di immersione in uno scenario inedito e sorprendente. «Al di là dell’argine di protezione», spiega il regista, «il fiume vive la sua vita quasi separato dal resto del mondo. Una realtà immutabile e del tutto indifferente alle trasformazioni che sconvolgono i territori circostanti. Anche se non si possono non vedere qua e là le tracce lasciate dal passaggio dell’uomo, tracce che appaiono talvolta come ferite; i veleni del benessere, che parlano della stupidità di certi nostri comportamenti. Il fiume è là e sopporta tutto con una forza immane».
A guidare il suo itinerario è inizialmente una curiosità fanciullesca che lo porta a immaginare una classe di bambini in gita scolastica su un battello mentre la maestra legge un brano di Konrad Lorenz, un forte appello ecologico e un inno alla difesa di tutte le specie del creato. Presto però la dimensione pedagogica lascia il passo al piacere della scoperta: il regista si muove da solo, come in una lunga soggettiva che gli lascia la libertà di perlustrare il fiume e le sue rive in lungo e in largo, perdendosi nella contemplazione degli animali che lo abitano (insetti, uccelli e pesci, così come daini e pecore), del brulicare della vita tra gli arbusti, i fiori e le piante, ma anche degli innumerevoli e cangianti riflessi dell’acqua che si muove, in sintonia con l’avvicendarsi dei colori e delle condizioni del cielo, oppure abbracciando con lo sguardo porzioni più ampie di spazio tra la terra e il fiume. Da questa meraviglia scaturisce un canto di lode con l’andamento e la solennità del Messiah di Händel: brani dell’oratorio punteggiano il percorso, a partire dall’inizio in cui il fiume suggerisce a Olmi un’immagine gloriosa, rivelatrice della gloria di Dio nel creato (And the glory, the glory of the Lord).
La voce di Francesco Carnelutti commenta le immagini e il canto con meditazioni che attingono liberamente dal vangelo di Giovanni, una sorta di verbo apocrifo, una riflessione laica condotta in prima persona. Sembra che a parlare sia il fiume, creatura che reca impressa l’impronta del creatore, e che invita alla conoscenza del mondo creato: «Io sono la voce di ogni origine che abita nelle altezze. Ciò che vedete non viene da me, ma dalla stessa forza che agisce in ogni creatura della terra, in tutto ciò che si muove nella vastità del firmamento».
Immagini, suoni, parole e musiche si intersecano tra loro creando assonanze e similitudini, ma anche contrasti e asincronismi, in un articolato montaggio verticale. La loro stratificazione procede, tuttavia, anche vettorialmente: come il fiume, le cui acque scorrono in un eterno fluire, così il tempo cronologico alterna alba e tramonto, notte e giorno, nel susseguirsi delle stagioni metereologiche e “umane” (la gioia del carnevale, la festa dell’estate).
Anche il Messiah e i brani (reinterpretati) del vangelo di Giovanni procedono dalla manifestazione gloriosa del divino al dolore del sacrificio, all’abiezione della sconfitta. Lo sguardo di Olmi registra anche ciò che ostacola la salvaguardia del fiume: le ruspe che pescano ghiaia dal fondo, le cave, le operazioni di disboscamento degli alberi, le fabbriche che oscurano il cielo con le loro ciminiere e sporcano le acque con i loro scarichi. Paziente, il Po accoglie tutto, disposto a perdonare l’incuria e il disprezzo umano, pur consapevole che si presenterà presto il conto per tutti.
Ma, come nell’ottica salvifica cristologica, la conclusione non può che essere il presagio di una resurrezione: forse la pienezza di una rivelazione che altro non è se non la profonda comprensione del mistero e insieme della grandezza di tutte le creature. La religiosità di Olmi, qui come in Cetochiodi (2007), passa attraverso l’urgenza di ristabilire un rapporto armonico con la natura, più che nella codificazione normativa del libro; e la divinità – al pari di Genesi: la creazione e il diluvio (1994) – rimane irrappresentabile, ma profondamente connaturata alla trasmissione della parola e al mistero delle immagini della natura, della vita che in essa scorre. Così, il racconto del fiume si fa anche trattato di ecologia – forse possiamo spingerci a dire di teologia? – dell’immagine: «Le immagini sono manifeste all’uomo, e la luce che è in esse è nascosta nella luce del suo creatore. Egli si farà conoscere, e la sua immagine sarà nascosta nella luce».