soldi
N.06 Dicembre 2019
Non è una Porsche a fare il calciatore
Una chiacchierata «potente» con Micheal Agazzi portiere della Cremonese: la Serie A e il volontariato, i deliri di onnipotenza (di qualcuno) e l'esempio di mamma e papà, la lezione di Gino Bartali e il Vangelo whatsapp dei "Campioni della Domenica»
«Potente» è la parola preferita di Michael Agazzi. Ma attenti alla semantica. Per il portiere della Cremonese – 35 anni e una carriera importante in Serie A tra Cagliari, Chievo e Milan – «potente» non è un tiro di Ronaldo, né una parata all’incrocio, e neppure un’auto sportiva. Nel mondo di Michael, «potente» è un libro che parla di beneficenza, l’amico missionario che vive in Bolivia, un incontro al centro tumori di Cagliari. «Potente» è il taxi di Zia Caterina che accompagna gratuitamente i piccoli pazienti all’ospedale pediatrico di Firenze, oppure la notifica che ogni giorno compare sul suo smartphone.
«Vedi?», ruota lo schermo e inizia a scorrere tra i messaggi. «È il gruppo “Campioni di Domenica”. L’avevamo creato con Eugenio Corini ai tempi del Chievo. Per un calciatore è difficile frequentare la Messa, così un sacerdote invia il Vangelo del giorno con il suo commento. È il mio momento di riflessione, il mio modo per rimanere vicino alla religione. A volte le Letture sono tostissime, delle “cazziate”. Ma alla fine ti lasciano una sensazione bella. Potente».
Si comincia da qua per smontare lo stereotipo del calciatore arricchito, viziato, idolatrato e sintonizzarsi su una partita ben diversa. La storia di Michael si scrive nella Bergamasca operosa e pragmatica (è nato a Ponte San Pietro, cresciuto a Villa d’Adda), racconta di un anti-divo profondo e sensibile che fatica a identificarsi con l’universo patinato del calcio; parla di soldi che portano a un senso d’onnipotenza effimero, di gesti di solidarietà che scaldano il cuore e del bene “che si fa, ma non si dice”, secondo l’insegnamento di Gino Bartali. «A proposito, se l’anno scorso avessi avuto l’esame di maturità, avrei scritto il tema su di lui. Hai presente quelle tracce in cui puoi riempire pagine e pagine?».
Nel 2012 hai dichiarato che il tuo modello era Christian Abbiati, il portiere del Milan. “È schivo, taciturno, non vive sotto i riflettori ed evita la mondanità. Io sono così”, hai detto. È ancora vero?
«È successo al gala “I Piedi buoni del calcio”, dove premiavano i giocatori per il loro impegno nel sociale. Il bello è che davanti avevo Buffon, l’idolo di qualsiasi portiere al mondo. Anche Galliani è rimasto sorpreso dalla risposta. Tuttora preferisco rimanere lontano dai riflettori e dalla vita mondana. Mi spaventa (oppure mi fa ridere) vedere persone che si sentono onnipotenti perché giocano a calcio. Ho avuto compagni che chiedevano ai magazzinieri di pagargli le bollette: non si degnavano neanche di sbrigare le incombenze più comuni. Guadagni tanti soldi e sei in preda a un delirio d’onnipotenza che finisce per rovinarti. Quanto può durare la tua carriera? Come mantieni il tuo tenore di vita quando smetti?»
Sei mai stato colpito dallo stesso “virus”?
«A 17 anni guadagnavo come mio padre che fa il muratore, si sveglia ogni mattina alle 5.30 e torna a casa alle 7.30 di sera. A 18 sono entrato in uno spogliatoio di Serie A, quello dell’Atalanta, come terzo portiere. Ho visto un mondo irreale, fatto di Porsche e Ferrari, ma non è mai stato il mio. Non demonizzo quello stile di vita, però non lo condivido. È una strada che non porta a nulla. Anzi, porta guai. Porta a sentirsi come un Papa e a credersi eterni».
Quindi l’immagine del calciatore che perde la testa per i soldi e la fama è vera, ma esistono eccezioni.
«In ogni squadra trovi due o tre persone straordinarie, con la testa sulle spalle. Purtroppo ho visto anche qualcuno cambiare dopo aver firmato contratti importanti. A volte però i giornalisti raccontano solo gli aspetti negativi. Ho giocato con Balotelli, è un ragazzo buonissimo. Faceva 99 cose positive e nessuno diceva niente, al primo errore lo massacravano».
Qual è stato il tuo antidoto al delirio d’onnipotenza?
«L’ambiente in cui sono cresciuto, la mentalità dei miei genitori. Ho la stessa forza di volontà e lo stesso spirito di sacrificio di mio padre e di mia madre. Quando avevo dieci anni, durante le vacanze estive mio padre mi mandava a lavorare in cantiere. Guadagnavo 10mila lire alla settimana, dovevano bastare per il mangiare e per l’abbonamento del pullman. Quando ho firmato il primo contratto da professionista, mi hanno chiesto l’iban. Non sapevo nemmeno cosa fosse. “I soldi vanno ai genitori”. Sono cresciuto con un forte senso di responsabilità».
Anche la formazione spirituale è stata importante.
«Credo, prego, mi sforzo di essere un buon esempio per gli altri. In ogni città in cui ho giocato, ho avuto un don come figura di riferimento, sono andato negli oratori, ho incontrato persone che hanno lasciato un segno nella mia vita. Uno dei miei più grandi amici ora è sacerdote in Bolivia. Ho bisogno di persone che sappiano trascinarmi con la loro testimonianza».
Durante la tua carriera hai promosso cause benefiche, sostenuto onlus, dedicato il tuo tempo agli altri. C’è stata un’iniziativa in particolare che ti è rimasta nel cuore?
«Pensi che io facessi del bene agli altri? Può essere, se lo vedi dall’esterno e credi che il calciatore sia un idolo inavvicinabile. La realtà è che tutte queste persone hanno fatto del bene a me. A Trieste, ogni venerdì pomeriggio, incontravo i ragazzi disabili dell’associazione sportiva Calicanto Onlus: tre ore a correre come un matto al loro fianco. Però, la sensazione che provi quando capisci che ti considerano uno di loro non ha prezzo. Non esiste niente di meglio. A Cagliari ho conosciuto le dottoresse e i ragazzi del centro tumori. Andavo a trovarli dopo l’allenamento, non dormivo la notte per quello che vedevo. Quando nel 2013 ho ottenuto la convocazione in Nazionale, loro erano quattro volte più emozionati di me. Di fronte a queste situazioni capisci che puoi vincere o perdere una partita, che puoi fare sette “papere” o sette prestazioni straordinarie, l’importante è dare il massimo, metterci il cuore ed essere un esempio positivo per gli altri. Questo è anche l’insegnamento di Zia Caterina».
Chi è Zia Caterina?
«Una signora fantastica che ho conosciuto a Firenze. Dopo aver perso il compagno per un tumore, ha messo a disposizione il suo taxi “Milano 25” per accompagnare gratuitamente i piccoli supereroi e i loro genitori all’ospedale pediatrico Meyer. Zia Caterina è una di quelle persone eccezionali che donano il sorriso a chi sta male. Ha sempre un cartello con sé: “Il viaggio è meglio della meta”. Ecco, nei momenti difficili questa frase mi ha aiutato. Quando in maggio abbiamo perso con il Perugia mancando l’accesso ai playoff e la possibilità di giocarci la Serie A, nello spogliatoio ho pianto pensando a un mio errore. Poi ho chiesto scusa alla squadra e di colpo sono tornato felice. Mi è tornato in mente il cartello di Zia Caterina. “Che bel viaggio che stai facendo”, mi sono detto. “Due anni fa pensavi di smettere e invece continui a vivere emozioni così forti”».
Attualmente ci sono iniziative sociali in cui sei impegnato?
«Con i compagni della Cremonese facciamo del bene ma preferiamo non renderlo pubblico, proprio come diceva Bartali. Comunque basta poco per far felice una persona. L’alto giorno, mentre facevo la spesa, ho aiutato un signore anziano a scegliere e trasportare il televisore nuovo. Mi ha ringraziato con un pacchetto di figurine alto così. Mio figlio Achille era al settimo cielo».
Il mondo si può cambiare anche con i piccoli gesti, allora.
«Sono convinto che il male nasca dalla paura. Quando una persona ha paura, si scaraventa con tutta la sua rabbia contro il prossimo. La gente ha bisogno solo di un po’ di amore: è una forza in grado di spostare le vite. Questo vale per tutti, non sono per chi gioca a calcio: basta un sorriso, un gesto di benevolenza nei rapporti umani e tutto cambia. La società non può andare avanti così. Come scrive Oscar di Montigny, bisogna tornare a mettere l’uomo al centro di tutto».
Un altro luogo comune che crolla: i calciatori non leggono.
«Io divoro libri. L’ultimo quello di Paolo Bonolis, “Perché parlavo da solo”. Mi è piaciuto il modo in cui ha preso posizione su temi importanti. Cerco soprattutto saggi, storie di vita reale, da Giuseppe Di Bella a Mario Calabresi. E in auto ho 50 minuti tra Bergamo e Cremona per ascoltare interviste».
C’è uno scrittore, un personaggio dello sport o dello spettacolo che ti ha ispirato?
«Matteo, il mio migliore amico fin dall’infanzia. Riesce a vedere il buono e a riconciliarsi con le persone, cosa che il mio orgoglio non sempre mi permette di fare. Tra i personaggi famosi, ammiro la forza d’animo di Alex Zanardi, il modo in cui ha reagito dopo l’incidente. Se ripenso ai miei infortuni, mi accorgo che si sono rivelati occasioni per conoscere persone straordinarie, che mi hanno aiutato a ripartire. È come se il punto più basso ogni volta fosse coinciso con il punto più alto».
Quello che non succede nelle classifiche di calcio succede nella vita. Ed è l’insegnamento più… potente.