parole

N.24 Ottobre 2021

TEATRO

«Mica pensavo di fare il comico». Paolo Cevoli e l’arte del sorriso

Il comico romagnolo ha portato a Sospiro la sua "Sagra di Famiglia": «La comicità non toglie il dramma dell’esistenza, ma toglie il peso. Dà leggerezza»

Una lavagna. Paolo Cevoli prende in mano un gesso e ricordando gli insegnamenti della sua prima maestra delle elementari («una donna che arrivava direttamente dal Risorgimento») traccia due segni: una stanghetta e un cerchio.
«Perché tutto, nella storia, comincia con la parola “io”. L’io è la parola più importante, sta alla base di tutta la conoscenza» dice agli spettatori del suo ultimo spettacolo, “La Sagra Famiglia”, portato in scena al Teatro Comunale di Sospiro pochi giorni fa.
Un’ora e mezza dove l’attore, comico, imprenditore romagnolo ripercorre alcuni momenti salienti della storia umana per indagare il rapporto tra padre e figlio.
Lo incontriamo in camerino alla fine dello spettacolo. È stanco ma ci sorride. La nostra intervista comincia qui.

Di mestiere fa ridere la gente, ma la sensazione netta è che niente di quel che porta in scena sia lasciato al caso. Come nasce uno spettacolo?

«Senza comicità. Parto sempre dal messaggio che voglio veicolare, scrivo lo scheletro e poi mi faccio aiutare dal mio regista e dagli autori confrontandomi con loro, scegliendo con cura le parole. La comicità e le battute arrivano dopo, le costruisco dopo. Non sono mai il punto di partenza. Il punto di partenza è sempre qualcosa che sento di volere e dover comunicare. Così posso anche parlare di cose serie – come la difficoltà oggi di essere realmente padri e figli – con ironia. Come diceva Chesterton, la comicità non toglie il dramma dell’esistenza, ma toglie il peso. Dà leggerezza».

Ha cominciato la serata usando la parola “io”, fil-rouge di tutto lo spettacolo. Perché?

«Perché è quando uno inizia a dire “io” che comincia tutta l’avventura umana. Per me è stato così. Quando uno inizia a dire “io” comincia a farsi delle domande, a chiedersi chi è, cosa ci sta a fare nel mondo e si muove per cercare le risposte. Nel mio spettacolo parlo di me bambino e del rapporto con i miei genitori, ma anche di Enea, di Achille o di Ulisse che partì proprio per andare in cerca del suo “io”. E per farlo lasciò tutto».

E poi affronta anche alcuni passaggi della storia biblica e del Vangelo: dai dieci comandamenti alla parabola del figliol prodigo. Quanto è importante l’educazione e la fede cattolica nella sua vita?

«Moltissimo. Come dico nello spettacolo, la storia del cristianesimo è una storia di libertà. Di un Dio che lascia libero i suoi figli anche di sbagliare, ma sempre li va a riprendere. Come è accaduto a me, che sono un patacca. Mica sapevo che avrei fatto il comico nella vita: pensi che l’ho scoperto a 44 anni! Fin da bambino avevo imparato dal mio babbo – che gestiva la pensione Cinzia di Riccione – a dire barzellette e a far ridere gli altri. Ma finché qualcuno non mi disse che dovevo farlo di mestiere (autori e registi autorevoli) non ci avrei mai scommesso. Il successo con Zelig (l’assessore, l’imprenditore dei maiali Teddy Casadei) è arrivato così. Perché avevo un talento ma qualcuno mi disse che dovevo coltivarlo e lavorare per mantenerlo vivo. È sempre così nella vita: servono maestri».

Servono maestri: quali sono stati i suoi?
«Ne ho avuti tanti e ancora oggi sono in cerca di maestri perché si ha sempre bisogno di seguire i passi di qualcuno. Ma per rispondere alla domanda… I miei genitori, prima di tutto. Che anche sbagliando a volte, mi hanno educato e mi hanno messo “nello zaino” tutto quello che poteva servirmi per camminare da solo. Mi hanno educato a un’idea positiva della realtà. Sono stato educato anche da esperienze e realtà che mi hanno toccato per umanità senso profondo della vita. A dicembre usciranno dei brevi sketch video intitolati “Capriole- storie di fallimenti e rinascita” dove incontro e racconto volti e storie del carcere Beccaria, della comunità Kairos, della comunità “Imprevisto” di Pesaro, della Homo Faber di Como o della Next di Parma. Anche per me loro sono maestri. E poi ho avuto la fortuna (o la grazia) di incontrare fin da piccolo don Giorgio, un mio amico sacerdote mancato un anno fa per il covid, che mi ha trasmesso la fede e l’ironia. Quando anni fa il mio babbo si ammalò ed era in fin di vita, si incontrarono per un’ultima volta un’ora e mezza prima che morisse. Sapevano che era la fine, ma riuscirono a ridere e a scherzare comunque. A proposito di parole: quel dialogo tra loro mi ha insegnato proprio questo. Che la morte non ha l’ultima parola. E allora che bello vivere sapendo che è così».