terra

N.01 Maggio 2019

LA VIA DEL LAVORO

Fare una cattedrale una pianta alla volta

Una giornata a Ri-genera laboratorio di agricoltura sociale che accoglie le fragilità e se ne prende cura con le mani e i piedi sporchi

Un grande salice piangente accoglie chiunque varchi la soglia di ingresso. Sotto la sua ombra una decina di sedie in legno colorato dicono di una vivacità nel lavoro unita a una manualità e una lenta sequenzialità dei gesti tipica di certi grandi e ormai dimenticati lavori di campagna. Le serre sono poco più avanti, una in fila all’altra, in netto contrasto con l’immensità dei campi che le circondano. Pochi passi e ci si trova di fronte a un recinto dove qualche oca e alcune caprette si alternano curiose a filo rete: qualcuna bela, qualcuna mastica, altre ancora giocano a incornarsi. Lontano – poco prima di un lungo filare di alberi – 40 piccole cassette multicolore sono il segno più lampante di un’intensa attività di apicoltura.

Entrare nell’azienda ortofrutticola “Rigenera” è un po’ come avanzare in punta di piedi in una cattedrale in costruzione. Ce lo racconta Giusy Brignoli, perito agricolo che segue da tempo le attività di questa realtà nata nel 2014  come esperimento di agricoltura sociale voluto dalla cooperativa Nazareth, situata a Persico Dosimo e oggi punto di riferimento per tantissime persone in tutto il cremonese. «Abbiamo iniziato con poco terreno, oggi abbiamo più di 5 ettari. Cosa facciamo? È semplice. Attraverso la coltivazione di ortaggi, la vendita del fresco nei mercati cittadini e il punto vendita situato a Porcellasco – quartiere Maristella -, offriamo a persone svantaggiate la possibilità di intraprendere un percorso di inserimento lavorativo in grado di sviluppare competenze professionali “vere”, coniugando così l’aspetto produttivo a quello sociale».

All’inizio venivano coltivati principalmente solo ortaggi biologici, mentre da quest’anno è stata introdotta la coltivazione di alberi da frutto (susine, fichi, nespole, melograno, gelso) e di piante come le more e il ribes. Ma la vera bellezza di Rigenera non sta nei frutti e nelle verdure, ma nelle tante persone che con pazienza si avvicendano per coltivare la terra. Si tratta perlopiù di ragazzi e adulti con disagi psichiatrici, che al pomeriggio possono mettersi alla prova con la ortoterapia. Lo stesso vale per bambini e ragazzini con problemi di disabilità o autismo, che seduti sotto il grande salice possono compiere gesti magari ripetitivi ma non per questo inutili come sgranare il melograno o pulire le verdure. Lavorare qui è una sfida per tutti: significa mettersi in gioco, sporcarsi letteralmente mani, piedi, faccia.

Alzarsi presto, essere puntuali,
sudare e lavorare
E vedere quanto può essere bello
il raccolto

Giusy scava delle piccole buche nella serra: i movimenti sono rapidi, sicuri. È china, ginocchia a terra. Scava, pianta il seme e intanto racconta con poche parole quella che è una vita intera: «Due o tre giorni a settimana abbiamo in inserimento un piccolo gruppo di minori stranieri non accompagnati, a cui insegniamo un primo approccio al lavoro. Poi abbiamo in programma di aprire un punto di pet teraphy con le capre in zona Po e un altro di apicoltura in carcere. Naturalmente il grosso delle attività avviene in azienda. Chi viene qui sperimenta una realtà solida e vera. Un esempio che mi viene in mente è la raccolta delle zucche: gli adolescenti delle comunità (Gruppo Gamma, Varietà e Borea) vengono chiamati ad aiutarci e possono così vedere cosa significa alzarsi presto, essere puntuali, sudare e lavorare, ma anche quanto può essere bello un raccolto redditizio e fatto bene. I terapisti che li seguono dicono che per loro ha un valore fenomenale».

Ci sono poi ragazzi che vengono in azienda per sperimentare l’alternanza scuola-lavoro e dal 2016 è iniziata anche la collaborazione con il carcere di Cremona: è stato infatti inaugurato il laboratorio di trasformazione agroalimentare all’interno della casa circondariale de “I Buoni di Cà del Ferro”, che oggi impiega cinque detenuti. Gli ortaggi biologici vengono trasformati in conserve che riescono così a raggiungere mercati più ampi, negozi e  ristoranti (primo fra tutti il Bon Bistrot della cooperativa Varietà, al Civico81 in via Bonomelli in città).

«Sembra un lavoro in perdita,
ma in realtà
noi guadagniamo in vita»

Certo, non è sempre tutto facile. Bisogna confrontarsi con il maltempo (l’altra sera il vento ha quasi distrutto le serre), con gli imprevisti (i danni creati da volpi, nutrie e conigli), con i capricci delle stagioni, con l’impazienza e i malumori di ciascuno. Eppure, per tanti, Rigenera è casa. Non tutti rimangono, ma il valore non sta nel “successo imprenditoriale”, quanto piuttosto nell’efficacia educativa di un luogo che richiede un impegno personale. Come è successo a un giovane ragazzo egiziano, fuggito dalle primavere arabe e arrivato in Italia su un barcone. L’adolescenza a Cremona non è delle più facili ma grazie a Nazareth e a Rigenera il giovane inizia un percorso di riscatto “da manuale”. Lavora in serra, poi accede a una borsa-lavoro alla quale seguono un tirocinio, il conseguimento della patente per il trattore, un corso di agricoltura sociale, la qualifica di tecnico biologico e l’assunzione in azienda. Il ragazzo ha voglia di lavorare e soprattutto sa di doverlo fare per poter aiutare la famiglia rimasta in Egitto. «A un certo punto, però, ha trovato lavoro in un’azienda più grande e se n’è andato quasi all’improvviso. Ma noi siamo comunque contenti perché abbiamo avuto il privilegio di poterlo accompagnare fin lì», spiega Giusy. «Agli occhi del mondo il nostro sembra un lavoro in perdita, ma in realtà noi guadagniamo in vita».

Ecco la cattedrale in costruzione. Rigenera sembra come la Sagrada Familia di Barcellona. Gaudì – che pure l’aveva sognata e progettata, le aveva dato la vita pur sapendo che non l’avrebbe mai vista finita. Non c’è forse dono di sé più grande? Costruire un’opera senza la presunzione di vederne la fine o di prenderne i meriti, quanto piuttosto di contribuire a un pezzetto di bellezza nel mondo. Rigenera è tutto questo. È una Sagrada Familia che pianta le sue radici nella terra. Perché, come scriveva l’indimenticato Emmanuel Mounier in quel capolavoro che è Lettere sul dolore: «è dalla terra, dalla solidità, che deriva necessariamente un parto pieno di gioia e il sentimento paziente dell’opera che cresce, delle tappe che si susseguono aspettate quasi con calma, con sicurezza. Occorre soffrire perché la verità non si cristallizzi in dottrine, ma nasca dalla carne».