musei
N.25 Novembre 2021
Monumento e movimento: quando il museo vive sullo schermo
Cinema e museo si compenetrano perché l’uno evidenzia ciò che manca all’altro e gliene fa dono
C’è una sorta di attrazione fatale tra cinema e museo, forse perché entrambi sollecitano lo sguardo, affinandone le capacità e sollecitando la concentrazione dello spettatore. Ancor più a fondo, tuttavia, nella loro relazione si gioca lo statuto stesso di ciascun dispositivo in ordine alla temporalità.
Il museo è il luogo del “monumentum” eretto nei confronti di opere e di oggetti che – sottratti alle loro originarie, quotidiane condizioni di vita e di utilizzo – sono stati selezionati ed esposti: ripuliti, restaurati, analizzati, hanno conosciuto un processo di valorizzazione (artistica ed economica) che ha reso opportuna la loro “messa in mostra”, operandone la musealizzazione, appunto. Il visitatore che si muove liberamente tra le stanze sosta davanti alle opere, dedicando loro il tempo necessario per apprezzarle e imprimere nella propria mente dei ricordi.
Al contrario, il cinema è – per definizione – immagine in movimento, in quanto si genera grazie alla tumultuosa velocità di scorrimento delle immagini (al ritmo di 24 fotogrammi al secondo, per rifarci alla proiezione standard della pellicola) davanti agli occhi degli spettatori. Ogni film possiede una temporalità eterodiretta e vettoriale, impossibile da arrestare o modificare, che enfatizza il movimento, la fuggevolezza, il cambiamento che prende forma in racconti.
Così, nella loro relazione, cinema e museo si compenetrano perché l’uno evidenzia ciò che manca all’altro e gliene fa dono: il cinema conferisce al museo il movimento, il senso di un dinamismo che dà vita a opere inanimate; il museo offre alla settima arte la possibilità di sostare su quadri, sculture e oggetti valorizzandone i particolari, la materialità stessa, inquadrandoli da vicino per mostrarli poi “in grande”.
Più difficile è trovare il modo di farlo senza scadere in registri didascalici o banali. Raccontare un museo sullo schermo è un’impresa complessa, che solo registi dalla grande sensibilità e dalla spiccata attitudine a ragionare sul loro linguaggio hanno saputo fare in modo convincente.
Il primo, in questa breve e personale rassegna, è Nicholas Philibert, documentarista francese schivo e originale che, alla fine degli anni Ottanta, viene invitato dalla direzione del museo a filmare la riesumazione di alcune grandi tele di Charles Le Brun, un pittore del Seicento celebre per gli affreschi di Versailles e Fontainbleau, oltre che dello stesso Louvre, mai più riaperte dagli anni Sessanta. Da questo incarico si origina uno sguardo curioso e appassionato del museo visto da dietro le quinte, indagato negli aspetti misconosciuti e in particolare attraverso il lavoro di coloro che “abitano” La ville Louvre (1990).
La popolazione di questa città-museo, che viene esplicitamente menzionata alla fine del film, è di 1200 persone dalle più svariate professionalità: operai e fabbri, chimici e giardinieri, pompieri e fotografi, per non parlare del personale di sorveglianza e dei conservatori dei vari dipartimenti. Molti di loro sono presentati nelle faccende quotidiane, seguiti in lunghi piani sequenza dalla camera che li accompagna negli spostamenti lungo i meandri di corridoi infiniti (di 15 chilometri). Philibert, cresciuto alla scuola del cinema diretto e del documentario francese, rinuncia ai cliché di questo filone – il commento della voice over, l’attitudine dimostrativa – per lasciarsi guidare da un’istintiva e spesso ironica curiosità. La si coglie negli abbinamenti tra quadri e lavoratori che evidenziano i medesimi gesti o gli stessi sguardi; nelle analoghe routine di curatori e imbianchini che, nei diversi ruoli, svolgono mansioni essenziali per raggiungere il risultato finale; nei rumori dei passi o nelle indicazioni dei manovali che echeggiano attraverso stanze e corridoi muti; nell’avvicendarsi di persone (e di quadri) sempre in movimento, destinate a sparire (o a fermarsi) quando il museo – come sembra accadere alla fine del film, attraverso indizi sonori – apre le porte al pubblico.
Sempre al Louvre, preso come sineddoche del Museo, inteso come luogo di raccolta e preservazione di opere d’arte, guarda Francofonia di Aleksandr Sokurov (2015). L’autore di Arca Russa (2002), dedicato all’Ermitage e alla sua storia, rivolge il suo sguardo acuto e visionario verso l’immenso scrigno di tesori di Francia e di tutto il mondo, cogliendolo nel tempo storico della minaccia e del massimo pericolo. È il momento dell’invasione tedesca, quando Hitler marcia verso il Louvre e ordina al conte Wolff-Metternich di farsi carico delle opere e dei monumenti francesi, peraltro già messi al sicuro dal direttore del museo, Jacques Jaujard.
Ma anche questo frangente è collocato all’interno di un arco temporale ancora più ampio, che va dal momento della fondazione della raccolta (con lo spirito di Marianne che percorre i corridoi sotterranei al grido di «Liberté, Égalité, Fraternité» e Napoleone che commenta i quadri a lui dedicati) fino al presente quando Alexandr (nel quale possiamo scorgere lo stesso regista) cerca di mettersi in contatto con una nave cargo carica di opere d’arte che affronta una tempesta in mare.
Proprio il senso di questa tempesta – raffigurata nel quadro di Théodore Géricault La zattera della Medusa (1818-1819) – è il vero nucleo drammaturgico della densa elegia di Sokurov, che in vari modi si interroga sulla precarietà dell’arte.
Le opere d’arte ci guardano. Mute e immobili, quando sono sollecitate dall’immagine cinematografica esigono la nostra attenzione. Chiedono di essere amate, protette, studiate, conservate. Perché, come dice la voice over del regista nel film rimandandoci a interrogativi più profondi, che riguardano la nostra stessa identità, «Chi saremmo noi senza i musei?» e «chi sarei io, senza aver visto gli occhi di coloro che sono vissuti prima di me?».