musei

N.25 Novembre 2021

PASSIONI

Un museo in movimento sui pedali del tempo

Con la Collezione velocipedi e biciclette antiche di Soresina Alfredo Azzini e il figlio Carlo ci portano sulle strade dei pionieri di quel mezzo dal sapore antico ma che tira la volata alla modernità

La storia della bicicletta non è solo la storia di un mezzo. È la storia dell’uomo che si sposta, che si emancipa, che attraversa i confini e accorcia le distanze. È la storia del mondo che si fa più piccolo e interconnesso, anticipando le grandi rivoluzioni tecnologiche della contemporaneità.
Se il tema vi affascina, c’è un luogo (sorprendentemente vicino) che avrete l’obbligo di visitare: la “Collezione velocipedi e biciclette antiche A&C Azzini”, a Soresina, è un viaggio nell’evoluzione meccanica e sociale del primo veicolo di trasporto che l’umanità abbia sfruttato basandosi esclusivamente sulle proprie possibilità, senza servirsi di un motore o di una spinta animale.
«Siamo riconosciuti come il museo italiano più completo per la storia della bicicletta» racconta il padrone di casa Alfredo Azzini, tradendo un pizzico d’orgoglio, mentre ci spalanca le porte delle sale del Palazzo Vertua Robbiani. Il museo, nato come collezione privata e poi aperto gratuitamente al pubblico dal 2014, contiene 290 velocipedi antichi, prodotti da metà Ottocento fino agli anni Quaranta del Novecento; 240 sono esposti e al 90% ancora pedalabili.
La genesi del luogo è poco lineare e merita di essere raccontata. Azzini, 67 anni, commercialista, viene da altri mondi: la passione per le auto d’epoca e per la scrittura, il territorio e la storia locale. Un giorno però acquista una bicicletta antica che regala al figlio Carlo (oggi 31 anni) in occasione del suo sedicesimo compleanno. Per Carlo è un colpo di fulmine. L’hobby del recupero e del restauro di vecchi velocipedi arrugginiti diventa una passione via via sempre più coinvolgente. E di rimbalzo finisce per contagiare anche il padre, che integra l’attività di Carlo approfondendone l’aspetto storico-sociologico.
Le passioni sono così, più scavi e più materiale esce, e più vorresti scavare ancora.
La collezione si allarga, dai soli velocipedi all’accessoristica e alle pubblicazioni d’epoca. Diventa un autentico museo. Finché sette anni fa lo spazio viene ufficialmente aperto al pubblico nelle due ali del palazzo di via Robbiani, che ospita anche lo studio professionale di famiglia.
«Siamo partiti con una raccolta che oserei definire “compulsiva”, poi divenuta nel tempo sempre più selettiva e specifica – continua Alfredo – Oggi il nostro viaggio parte da una riproduzione del primo velocipede, del 1818, che si deve all’invenzione purtroppo mai brevettata del barone tedesco von Sauerbronn, per poi snodarsi attraverso una storia lunga oltre un secolo nel corso del quale la bicicletta si afferma compiutamente come mezzo di turismo e di trasporto in tutto il mondo, a partire dalla Francia e dall’Inghilterra. Il nostro pezzo più antico risale al 1863, mentre il Dopoguerra è il punto d’arrivo del tour. Con la motorizzazione la bicicletta viene relegata ad un ruolo secondario e si apre una seconda fase della storia, caratterizzata dalla standardizzazione delle produzioni e all’avvento della mountain bike, alla quale siamo meno interessati».
Una collezione avviata quasi per sbaglio, dunque, divenuta in pochi anni un piccolo caso da studiare. Basti pensare che fino all’avvento della pandemia la media annuale di ingressi in via Robbiani si assestava sui 2.000 visitatori l’anno. Tra loro tanti italiani, ma anche tedeschi, austriaci, belgi e francesi disposti a separarsi per un giorno dal lago di Garda pur di immergersi in questo magnifico itinerario attraverso il tempo e lo spazio della civiltà contemporanea. Sì, perché la Collezione Azzini non è un angolo di antiquariato per appassionati locali e nemmeno un santuario per ciclisti. Anzi vuole essere il riassunto di qualcosa di più vasto e universale. Vuole parlare ad un pubblico internazionale: collezionismo e passione, ma anche società, storia dell’industria, geografia…

È la storia dell’uomo che si sposta,
che si emancipa,
che attraversa i confini
e accorcia le distanze

«Le librerie sono piene di volumi che narrano le imprese dei grandi eroi del ciclismo, cantate dalle penne più raffinate, ma spesso si dimentica che prima ancora della prestazione sportiva c’è la nascita e la storia del mezzo sul quale si muovono tali protagonisti» riflette Azzini. «Se parliamo di storia sociale e industriale della bicicletta, la bibliografia in lingua italiana non è così vasta, ci sono margini di ricerca ancora molto ampi. Ho quasi completato un libro sui primi 100 anni di storia della bicicletta, da inizio Ottocento a inizio Novecento, focalizzando le ricerche sul periodo “classico”». Ricerche e pubblicazioni che promettono di essere le future estensioni della collezione, capace di attirare negli ultimi anni personaggi del calibro di Francesco Moser e di Mauro Forghieri (ex progettista di auto di F1 e direttore tecnico della Ferrari). «La soddisfazione più grande è quando i nostri visitatori, andandosene, ci ringraziano. Gli ingressi sono gratis, noi non guadagniamo da questa attività, ma fornire loro le chiavi per scoprire e appassionarsi alla storia della bici ci ripaga da qualsiasi sforzo».
La nostra visita avviene in un pomeriggio di mezzo del peggior novembre possibile, quelle settimane in cui l’autunno sembra a tutti i costi voler offrire il suo lato peggiore. Il cielo grigio tiranneggia su Soresina e sulla Pianura Padana. Da giorni (forse settimane) non appare un raggio di sole, l’oscurità delle 16.30 ci avvolge presto. Ogni dettaglio assume contorni vagamente deprimenti e induce alla pigrizia. Per essere ancora più espliciti, è il momento in cui, in genere, oltre un certo orario preferiremmo chiuderci a riccio in casa per crogiolarci tra coperte, Netflix e specialità ipercaloriche di stagione.
Entrando nella Collezione Azzini, tuttavia, è come se una luce tornasse ad accendere i nostri sensi intorpiditi, a risvegliare il nostro bisogno di esplorare e scoprire. Guidati da Alfredo, ritorniamo nella Bélle Epoque, attraversiamo le guerre mondiali (sì, la bicicletta è stata anche un fondamentale strumento militare) e all’improvviso ci ritroviamo catapultati nella magia di un’officina meticolosamente ricostruita secondo i canoni del 1935. Tra pedivelle e manubri spiegati nel minimo dettaglio, la curiosità ci spinge addirittura ad azzardare domande fatalmente banali. Del tipo: okay la passione, ma come avete fatto a realizzare tutto ciò?
«Diciamo che una volta aperta la collezione al pubblico e innescato il processo, spesso sono stati i visitatori a volerci donare le loro biciclette sapendo che qui sarebbero state custodite e valorizzate al meglio» spiega Alfredo, con la consueta sapienza enciclopedica, senza scomporsi troppo. «Altre volte, invece, abbiamo acquistato biciclette italiane da corsa degli anni Settanta e Ottanta con telai eccezionali, di un valore molto elevato sul mercato internazionale, come “moneta di scambio” per arrivare al genere di velocipede antico al quale siamo interessati».
Non mancano infine gli affascinanti risvolti sociologici. Fino ad un certo punto della storia del Novecento, per esempio, per donne e sacerdoti spostarsi pedalando era considerato sconveniente («Monsignor Bonomelli, vescovo di Cremona, era tra i pochi favorevoli al prete in bici…» ci ricorda puntualmente Alfredo).

Ma la bicicletta ha saputo abbattere qualsiasi tipo di tabù. E rendere possibili imprese folli, come quella di Luigi Masetti, al quale il museo dedica una sezione. All’alba del Novecento, sull’onda di suggestioni degne di Jules Verne e del suo Giro del mondo in ottanta giorni, Masetti firmò la sua personalissima impresa globale sulle due ruote. 180.000 chilometri da Milano a Milano, toccando l’Africa (Ceuta), il Circolo Polare Artico (Capo Nord) e il Bosforo (Costantinopoli). Oggi Masetti sarebbe un “Ultra-Cyclist” e vivrebbe di sponsor, di followers, di libri e di serate. All’epoca invece era solo un giovane uomo originario del Polesine in sella ad una bici, che si auto-finanziava rivendendo cartoline e attraversava il pianeta pedalando per imparare le lingue, e con esse trovarsi un lavoro da traduttore una volta tornato a Milano.
Mentre fuori dalle sale si fa buio, e la visita sta per terminare, Alfredo Azzini ci invita per un caffè conducendoci attraverso una porta interna che collega il museo al suo studio professionale. Non finirebbe più di parlare dei suoi velocipedi, del passato, delle mille evoluzioni tecniche e sociali della materia.

Ascoltiamo e il pensiero torna a Masetti, alla sua passione senza confini per l’esplorazione e alla conoscenza, alla sua follia, che in fondo non corre così lontana da quella di Alfredo e Carlo Azzini. E finendo di sorseggiare il caffè, mentre riponiamo la tazzina, ringraziamo la bicicletta per aver ispirato uomini così a pensare in grande, a immaginare, a creare, e soprattutto a condividere, con l’obiettivo di lasciare un’eredità ai visitatori e alla cultura. Senza chiedere nulla in cambio.