onde
N.23 Settembre 2021
«I miei anni con la tribù inseguendo l’onda… dentro»
Viaggio tra onde, vento e filosofia della tavola con il surfista cremonese Marcello Monti
«E poi arriva il momento nel quale tutto trova un senso. Succede quando riesci a cavalcare la stessa onda che ti ha appena travolto. Nel wind surf è l’attimo magico in cui passi dal veleggiare al planare: la tavola schiaffeggia l’acqua, inizi a dominare l’elemento naturale, senti il vento sulle braccia. Il surf è questo. L’attesa dell’onda perfetta, del vento perfetto, dell’attimo perfetto. Sei in armonia con il mondo, ti senti eccitato e felice, non pensi a nient’altro». Marcello Monti, surfista cremonese, parla con il trasporto emotivo e la dovizia di particolari tipica delle persone che amano profondamente quello che stanno raccontando. Generalmente sono anime felici: le passioni ispirano le loro esistenze, le elevano verso orizzonti più ampi rispetto ai piccoli successi o insuccessi della quotidianità. Marcello è uno di loro. Pantaloncini corti, il fisico asciutto in bella mostra, i capelli grigi raccolti in un codino alto. Per lui, 51 anni, surf e wind-surf non sono un mezzo volgare per fare a gara con qualcuno, tenersi in forma o – peggio – un passatempo per riempire i weekend.
La nostra conversazione si svolge a Cremona, Porta Romana, nella quiete afosa di una mattinata di fine estate. Eppure, la sensazione è di trovarsi catapultati tra le pagine di “Giorni selvaggi”, il libro cult di William Finnegan diventato nel tempo la bibbia dei surfisti, fissare l’oceano che si spalanca davanti, mentre il tramonto avvolge la spiaggia e qualcuno accende un falò.
Marcello parte subito sgomberando il campo da equivoci: «Anche se ormai è entrato nel calendario dei Giochi come disciplina olimpica, il surf continua ad essere un mondo a parte, distante anni luce dalla dimensione competitiva e organizzata dello sport ufficiale. Piuttosto, andrebbe concepito come uno stile di vita legato al vivere in relazione con gli elementi della natura. I veri surfisti sono nomadi, sognatori. Se ne fregano di record, risultati o classifiche. Parliamo di atleti atipici, che non inseguono trofei ma le onde o il vento. E con essi la libertà».
Nel dialogare, proviamo a non cadere nella tentazione di nobilitare il surf con un susseguirsi di suggestioni ammiccanti o citazioni colte. L’obiettivo è raccontare le ‘’onde’’ metaforiche di questa sottocultura senza filtri e Marcello (occupazione attuale: operaio) non è certo tipo da riempirsi la bocca di retorica: «Quando ero ragazzo, staccavo dal lavoro a mezzanotte e all’alba ero già sul lago di Garda in attesa del vento giusto che arriva da nord nel primo mattino. Sono stato a surfare per lunghi periodi in Sardegna, in Grecia, in Brasile. Surf e wind surf, senza sosta. Viaggiavo, vivevo quasi a tempo pieno nella tribù. Il lavoro era subordinato alla possibilità di andare sulla tavola con continuità. Poi il tempo passa e la passione no, ma certe priorità, beh, quelle sì. Oggi sono padre di una bambina di 6 anni e un certo stile di vita non è più sostenibile».
Infatti Marcello ha abbandonato l’iconico furgone, che nell’immaginario collettivo sta alla cultura del surf un po’ come i tatuaggi stanno agli avambracci dei calciatori: «Ora le vacanze si fanno in camper con la famiglia e questo racconta molto del mio cambiamento. Perché è figo recitare la parte del surfista giramondo che sfida muri d’acqua alti decine di metri, ma poi la poesia svanisce e anche le donne si stufano. Sono tornato ad una vita parzialmente stanziale, qui a Cremona. Molti altri amici, invece, hanno sposato la passione in eterno e la loro vita non cambia mai: fanno lavori saltuari o notturni, vivono un rapporto morboso con le applicazioni di aggiornamento del meteo, e appena possibile balzano in acqua sulla tavola. Ne conosco parecchi anche sul Garda. I surfisti per sempre, quelli che non mollano, vivono in simbiosi con il vento o le onde e sono allergici alle convenzioni sociali».
Poi precisa: «Comunque, anche oggi, appena posso scappo al lago o qualche giorno al mare…».
Marcello, comunque, non rinnega nulla degli anni trascorsi all’inseguimento dell’onda. Che sia sul Garda o sulla costa sarda a Porto Pollo, oppure ancora a Karpathos, continua a cercare la simbiosi perfetta con l’elemento naturale. Mentre parliamo, nel placido contesto domestico di una terrazza con vista sul cortile interno, sembra un esploratore impaziente di ripartire verso nuove planate e nuove conquiste. Avendo vissuto dall’interno la tribù per lungo tempo, sente inoltre il bisogno di difendere il “suo” mondo dalle banalizzazioni e dalle narrazioni per stereotipi veicolati sul piccolo o grande schermo.
Il primo mito abbattuto senza troppi giri di parole è quello di Nazaré, l’ex villaggio anonimo di pescatori in Portogallo diventato il famigerato teatro delle onde più alte del mondo, meta di molti appassionati: «In quella zona dell’Atlantico si creano onde gigantesche, è vero, ma poco accessibili. Per avvicinarti hai bisogno di almeno tre moto d’acqua, quindi di sponsor, è roba solo per professionisti con un’assistenza. Il surf invece dovrebbe essere aperto alle possibilità di qualsiasi appassionato con un’adeguata preparazione fisica. Personalmente mi tengo stretto i ricordi di Praia do Pipa in Brasile, un posto fantastico, dove ho surfato al fianco di ragazzini locali che crescono con la passione per la tavola nel dna, uscendo dal “tubo” delle onde».
Infine (e forse qualcuno un giorno mi perdonerà) scatta la domanda su Point Break, pellicola-manifesto degli anni Novanta con Keanu Reeves e Patrick Swayze. Sì, il film sui rapinatori-surfisti mascherati da ex presidenti degli Stati Uniti, con velleità da guru antiborghesi, che svaligiano le banche per pagarsi settimane di divertimento e onde sull’Oceano… «Ecco, Point Break non ha fatto bene al surf – precisa Monti – Un po’ perché ha creato un collegamento tra surfisti e criminali. E un po’ perché, con il suo successo cinematografico, ha spinto tanti sprovveduti affascinati dal lato mistico o eversivo della tavola a misurarsi con una disciplina che invece è molto esigente. Senza allenamento si rischia solo di farsi del male o, peggio ancora, si mette a repentaglio la propria vita. Accade anche nel wind surf, teoricamente meno estremo del surf. Solo poche settimane fa me la sono vista brutta. Ho rotto il “piede” dell’albero in mezzo al lago di Garda.
Ero a 800 metri della costa veronese, stavo quasi per abbandonare il materiale. Grazie al cielo sono stato soccorso da alcuni tedeschi in barca a vela. Per non parlare di quando, in passato, sono rimasto sommerso da onde con 150 metri di risacca di spuma: le chiamiamo “lavatrici” nel gergo, dopo tre giorni a cena mi scendeva ancora l’acqua dal naso. Il punto è che quando sei solo, in mezzo al lago o nel mare, puoi lasciarci le penne. Con tutto il rispetto, non è come giocare a bocce, e di questo devi essere consapevole».
Mentre Marcello ci mostra con orgoglio il suo materiale, gelosamente custodito in garage, gli chiediamo però quale sia davvero la motivazione che spinge un amatore (per quanto invasato) ad accettare il rischio. Si dice che per ottenere qualcosa di grande si debba essere disposti a perdere qualcosa di altrettanto importante, o quanto meno a sudarlo intensamente. Penso ad alcune vacanze vissute da cicloturista, zaino in spalla, sotto il sole estivo a 40 gradi, a pedalare per 200 chilometri al giorno lungo le statali sconnesse della Spagna settentrionale o della Tuscia, seguendo la rotta dei grandi viaggiatori della storia, sul cammino di Santiago di Compostela o sulla Francigena con la bussola puntata verso Roma.
«Il punto è proprio quello – si riconosce Marcello – Sono le situazioni nelle quali torniamo alle nostre esigenze basilari: ci sentiamo liberi, selvaggi, vivi. Prima sperimentiamo l’adrenalina, ma subito dopo la priorità è mettersi in salvo, coprirsi, bere, alimentarsi, trovare un posto nel quale passare la notte. Le giornate sono scandite dal sole e dalla luna. Vale in bici, ma anche in montagna o sulla tavola da surf. Ti sconnetti da tutto e da tutti, la natura comanda e devi stare alle sue regole. Certo, puoi prevenire il rischio, ma non scongiurarlo del tutto. Però ne vale la pena. Perché? Perché è così che rigeneriamo il nostro spirito».
Quando succede, sperimentiamo l’ebrezza del momento perfetto. E allora non è più sport. È molto di più: sono attimi di ricerca dell’essenza. La quintessenza della libertà.