cibo
N.15 Novembre 2020
Tognazzi e il cibo: non è tutta scena
Nei suoi film l'attore esprime una sorta di riconoscenza per il cibo come prodotto di quella terra che gli ricorda le sue origini padane
Quello tra Tognazzi e il cibo è un grande rapporto d’amore, paragonabile forse all’amore per il cinema, per la famiglia e per le donne, cardini della sua vita di provinciale catapultato nel grande mondo della settima arte. È un rapporto viscerale fatto di desiderio e cura, di convivialità (basti ricordare le cene per gli amici) e di eccessi (che trovano una grottesca e paradossale rappresentazione ne La grande bouffe di Marco Ferreri, 1973). Nelle pieghe della sua passione per il cibo Tognazzi rivela alcuni tratti forse meno evidenti della sua personalità. Basti pensare alla frequenza con cui l’atto del mangiare ritorna nei suoi film, di gran lunga superiore agli altri “colonnelli” della commedia all’italiana, Gassman, Manfredi, Sordi e Mastroianni. La sua non è la fame atavica dell’italiano morto di fame (simboleggiata dalla celebre immagine di Alberto Sordi davanti a un enorme piatto di spaghetti in Un americano a Roma, di Steno, 1954) o, per lo meno, non è solo quella.
Tognazzi esprime una sorta di contemplazione e riconoscenza per il cibo come prodotto di quella terra che gli ricorda le sue origini padane.
Ne La marcia su Roma (di Dino Risi, 1962) prende in mano un pugno di terra di un campo coltivato a patate e commenta da esperto: «è terra buona, terra grassa, terra friabile. Che profumo, una meraviglia. Un po’ troppo concimata, forse; è acida come terra. Beh, si sa, questa è adatta per coltivare il grano duro». Un pomodoro è spesso «un bel pomodoro», ossia un organismo vivente, frutto della madre terra, e non solo un mezzo per saziare la sua fame. Il cibo nei suoi film è ben inquadrato, visualizzato, commentato dall’attore che sembra quasi uscire dal copione e recitare a braccio, infondendo un suo tratto, personale e inconfondibile, ai personaggi a cui dà vita.
Ciò diventa ancor più chiaro quando – non di rado – Tognazzi si mette ai fornelli, e “interpreta” le sue ricette. Gli esempi sono moltissimi, da L’ape regina (Ferreri, 1963) a Arrivederci e grazie (Capitani, 1988): indossato un grembiulino che gli toglie ogni allure di divismo, Ugo sembra cucinare per il suo piacere e per quello dello spettatore, anticipando la moda del cinema-gourmet. In Una moglie americana (di Gian Luigi Polidoro, 1965), Tognazzi è un provinciale che parte per gli Stati Uniti, deciso a trovare una moglie emancipata e moderna, per stabilirsi nel nuovo mondo. Quando finalmente ne ha trovata una bella, giovane, seria e divorziata, ed è entrato in intimità con lei, convinto di farne presto la sua sposa, prepara una pasta alla carbonara – «il più americano di tutti i piatti», come avrà modo di dire – in un pranzo durante il quale la donna lo presenta al suo ex marito. Mentre grattugia il formaggio, commenta: «Peccato che non è il nostro cacio […] mi vengono un po’ debolini, capisci […] sai cosa faccio? Io calco la mano col pepe, e non ci penso più. Lo sai come si chiamano questi? Spaghetti alla carbonara. Semplicissimo. Condimento a crudo. Metti un uovo per ogni persona, stabilendo però che ogni due tuorli togli un albume». Poi, dopo aver portato avanti la conversazione e aver aggiunto un po’ di latte, fa assaggiare al rivale: «senti un po’, come pepe come va?».
Quindi affetta la pancetta con un coltello elettrico. Alla fine scola la pasta, aggiunge «la sua pancettina» e porta trionfante in soggiorno il suo piatto, ma trova la tavola vuota. Inebriati dal profumo del cibo italiano, i due americani si sono rimessi insieme.
Non vi è dubbio che questa sia una carbonara “alla Tognazzi”; la stessa ricetta che l’attore rievoca nel suo volume di memorie e gastronomia, L’abbuffone (1973), ambientando la scena in una suite dell’Hotel Hilton di New York durante un ricevimento per 350 persone in occasione della presentazione del suo film Marcia nuziale (di Marco Ferreri, 1964). Tognazzi si dibatte tra le cucine dell’albergo, dove vengono fatti cuocere 30 chili di pasta, e il 48esimo piano, dove con l’aiuto di alcuni cuochi predispone il condimento, ottenendo un risultato trionfale per i palati yankee.
Quando viene indicato dal produttore come l’attore-cuoco, ha inizio il suo trionfo: «cominciarono ad abbracciarmi fra urletti, risolini, ed esclamazioni», racconta. «Ricevetti un centinaio di bacetti unti da bacon. Continuarono ad acclamarmi per dieci minuti. […] Subito riprendevano con i “terrific!” dedicati alla carbonara, e cercavano di pronunciarne il nome, e dicevano: “cherbounerau”. E dopo un po’ tutta la sala diceva “cherbounerau”. La mia “cherbounerau” diventò proverbiale in una settimana, ed io cominciai una tournée che mi portò a Oklahoma, Dallas, New Orelans, non tanto per propagandare il film, quanto per cucinare il mio trionfale piatto nelle case dei più facoltosi americani» (L’abbuffone, pp. 74-75).
Nell’aneddoto si coglie un cortocircuito che rivela il continuo rimescolarsi tra vita e cinema: l’avventura americana fornisce materia per una scena del film successivo (Una moglie americana), e più tardi viene rievocata letterariamente nel suo libro di «autogastrobiografia», come lui stesso lo definisce. Nel cibo Tognazzi trova un nutrimento anche espressivo che diventa liberatorio, e gli consente di oltrepassare i propri limiti o i complessi di inferiorità (ad esempio nei confronti di Gassman, che aveva studiato recitazione a differenza di lui, autodidatta).
Quando si parla di mangiare l’attore cremonese, forte delle sue origini “di terra”, sale in cattedra e, senza inorgoglirsi, si trasforma in sceneggiatore e addirittura scrittore. Sempre avanti sui tempi, pubblica diversi manuali e diventa persino direttore di una rivista, «La Nuova Cucina», dal 1980.
Insomma, quello che si dice un “rapporto viscerale”.