aria
N.39 Marzo 2023
Dura più di un’ora l’aria di Jermaine
“In carcere ho capito che la vita insegna , poi sta a noi decidere se vogliamo imparare e superare le prove che ci mette davanti"
“L’aria è buona, adesso”.
Jermaine si passa le mani sul viso, liberando un sorriso luminoso.
Ha trentacinque anni, da ventitré vive in Italia con la famiglia. Dal Ghana a Cremona, dove ha assorbito l’accento senza perdere le radici, che a tratti riemergono tra i suoi ricordi e tra le parole che sceglie per raccontarsi.
La sua storia inizia con un “purtroppo”, perché “la vita a volte ti insegna, poi ti mette alla prova, per vedere se hai imparato qualcosa”.
Appena dopo il diploma, si trova ad affrontare prove ben più complesse dell’esame di maturità. C’è la crisi, la malattia del il padre, “l’unico che manteneva la famiglia – racconta il giovane – Volevo fare l’università, acquistare una macchina, ma quella situazione ha cambiato tutto”.
L’espressione si fa seria: “Non mi è mai dispiaciuto lavorare – puntualizza – l’ho sempre fatto con umiltà. Il dispiacere arriva quando non vedi meritocrazia”.
Racconta i tre anni di tirocinio svolti presso un’azienda metalmeccanica, in cui competenze e buona volontà non bastano a garantirgli l’assunzione. La storia si ripete nel secondo posto di lavoro, dove nonostante l’impegno e i buoni risultati il contratto non viene rinnovato.
“Tu non mi piaci, mi hanno detto”, ricorda Jermaine imitando una smorfia di sdegno. “Ho risposto che non devo piacere io, ma il mio lavoro. Ho studiato le leggi, ho imparato a conoscere i miei diritti e ho cercato di farli rispettare, ma questo non ha aiutato. Questa seconda sbandata mi ha portato su un’altra strada”.
Nell’estate del 2020, Jermaine varca la soglia della Casa circondariale di Cremona. Trascorre le prime due settimane in una cella chiusa, per rispettare la quarantena imposta dalla pandemia. “Sono stati i giorni più brutti della mia vita – ricorda – Ero solo, senza punti di riferimento, senza qualcuno che mi spiegasse come funzionano le cose. L’impatto è stato traumatico, non ritieni di aver fatto una cosa tale da meritarti questo. Ma lo dice la legge”. Il tempo in reclusione scorre lento, insegnando a Jermaine spazi e ritmi di quella vita sospesa tra quattro mura. Nemmeno l’ora d’aria gli porta respiro: “Non volevo uscire – racconta – volevo dissociarmi. Mi sono detto: se accetto di essere come loro, sarò come loro. Mi rifiutavo… Poi ho capito che la parte più difficile è perdonare se stessi”. Il contatto con gli altri detenuti non è semplice, finché una vecchia conoscenza non lo aiuta ad ambientarsi, cambiando prospettiva.
“Lì ho capito che la vita insegna , poi sta a noi decidere se vogliamo imparare e superare le prove che ci mette davanti. Ho imparato a pormi domande, a conoscere quel luogo che inizialmente rifiutavo. Mi sono reso conto che spesso la realtà è molto diversa d come viene descritta nei film. In realtà il carcere è un mondo, fatto di persone. Hanno carne come me, hanno sangue nelle vene, vivono d’aria come vivo d’aria io”.
Inizia a fare volontariato nella biblioteca del carcere, dove la letteratura gli permette di viaggiare con la mente: “Mi chiamavano il professore – ride – giravo sempre con un libro in mano. Lì devi imparare ad apprezzare le piccole libertà che riesci a ritagliarti. Per guardare il cielo devi andare nel campo sportivo, ma anche lì è solo una finestra d’aria.
Passano otto mesi, “che lì dentro sembrano otto anni”. La voce s’incrina, mentre ripercorre i primi passi di libertà. “Quando torni alla vita “fuori”, ti accorgi che tantissime cose che prima non avresti mai notato. Mi muovevo lentamente, per assaporare tutto ciò che mi era mancato. Gli odori della campagna, quelli di casa, i colori della natura. Il piacere di camminare per chilometri senza trovare muri”.
Perché “l’aria è buona adesso, senza se e senza ma”.