noi
N.40 aprile 2023
«Adesso lo so, nasciamo due volte»
«Dovresti imparare a guardarti con i miei occhi». Agostino, mio marito, me lo ripete sempre. Poche parole, per sfondare un muro di paure come fosse un invisibile velo
Si nasce due volte. La prima inconsapevolmente, per volere d’altri, regalando pianti e sorrisi ad un mondo che non ci appartiene.
La seconda, per volere nostro. Perché meritiamo di essere padroni della nostra vita. Protagonisti di un presente da vivere e di un futuro da costruire.
Nasciamo due volte. Prima veniamo alla luce, poi illuminiamo. Siamo nati due volte per brillare, oltre il buio degli errori, degli ostacoli, dei pregiudizi. Per mano ai sorrisi, al passo della vita. La nostra.
Quando l’ho capito, avevo 14 anni. Mi ero da poco svegliata dall’anestesia per l’ennesimo intervento chirurgico. L’ottavo, il più complesso, il più doloroso. L’ultimo.
L’ho deciso quando ho sentito la sofferenza sottopelle. Troppo forte per continuare. Per provare a porre rimedio agli errori altrui. La previsione da subito è stata limpida «La riabilitazione richiederà dei mesi». Infiniti. Una sfida che potevo tollerare. Un’altra. Ancora una. O almeno così credevo.
I primi momenti sono stati i peggiori. Ero immobile a letto. Preso in prestito da non so dove, i miei avevano deciso di posizionarlo nel salotto. Per evitare sforzi e movimenti bruschi. Impossibile pensare in quei primi attimi di fare le scale. «”Devi stare immobile, è fondamentale».
Amorevoli fisioterapisti si alternavano ad amici, parenti e vicini di casa. La mente vagava, il corpo no. Era immobile, l’aveva prescritto il medico. Si muoveva un’ora al giorno. Con cautela. Sotto stretta supervisione degli esperti. Ché riabilitarsi vuol dire tornare alla vita. Ma alla vita di tutti i giorni, alla mia vita di tutti i giorni, dovevo tornarci con cautela. I pezzi – no, non parlo solo delle ossa e dei muscoli – dovevano tornare ad incastrarsi alla perfezione.
Questione di tempo. “Quello sana tutte le ferite”. O quasi. Sulla gamba sinistra, sin da piccola, ho collezionato cicatrici. Leonard Cohen dice che è da lì, dalle crepe, che entra la luce. L’avessi saputo a 14 anni, con il dolore immane sottopelle, l’avrei mandato a quel paese, Cohen… Oggi, invece, glielo direi: in fondo, aveva ragione. Perché anche quel dolore racconta chi sono, cosa ho attraversato, per arrivare a splendere così. Con un’andatura claudicante ed un caratteraccio, il sorriso stampato sul volto, la testa tra le nuvole ed i piedi ben saldi a terra.
Non è sempre stato così. In passato ho avuto paura. Degli sguardi, che mi facevano sentire sbagliata. Delle parole, pesanti come macigni per una bambina che ha dovuto imparare a correre solo con la mente. Ho permesso loro di vincere. Ho abitato angoli colmi di libri, di parole amiche, di emozioni da vivere. Fino a quando a 20 anni, in quello specchio che mi ha sempre raccontato la verità, ho fatto fatica a riconoscermi. A 20 anni è difficile fare i conti con un corpo imperfetto. Mi vedevo grassa. Ho cominciato a dimagrire. E mentre i chili sulla bilancia diminuivano, l’ansia mi mangiava. Avevo perso quella fame di vita che, oltre i limiti, mi aveva tenuto in piedi fino a quel momento. Per del tempo ho nascosto le cicatrici sulle gambe con il fondotinta. Come se bastasse un po’ di colore ad oscurare il buio. Poi quel buio non ha perso occasione di raccontarsi, mettendo a nudo la forza della fragilità.
Oggi so che a quel corpo imperfetto nulla manca per sentirsi bene. Nulla manca per amarsi. A partire dagli angoli più bui. Dagli spigoli che lo rendono finito, diverso. Unico.
«Dovresti imparare a guardarti con i miei occhi». Agostino, mio marito, me lo ripete sempre. Poche parole, per sfondare un muro di paure come fosse un invisibile velo.
Lo fa dal giorno in cui ci siamo conosciuti, otto anni fa, con una naturalezza che ogni giorno mi disarma. Spesso preferisce il silenzio. Ama ascoltare, piuttosto che parlare. Mi ha insegnato ad amarmi. Ad amare le mie imperfezioni, i miei difetti. E ad amare gli altri, oltre le parole fuori posto, i silenzi colmi di pietà, gli sguardi pieni di compassione, l’invidia e la cattiveria. «Sono affar loro. Non ti riguardano».
Mi riguarda, invece, il presente da vivere. E il futuro da scrivere. Una storia per volta con la penna tra le mani. Portando con me la forza di una mamma che non si è fatta fermare da una diagnosi infausta, quella di un papà che ha superato la paura, di un atleta con disabilità, che oltre le medaglie, vince tutti i giorni.
E la soddisfazione di essere riuscita ad arrivare fino a qui, rigorosamente con la penna tra le mani e una famiglia che non mi ha mai lasciata sola.
Oggi mi guardo allo specchio e mi riconosco: sono il riflesso di ciò che ho vissuto e l’artefice del mio domani. Per mano alle mie imperfezioni e alle mie paure, ma con una buona dose di determinazione.
Si nasce due volte: la seconda perché lo vogliamo noi. Pure abbracciando la disabilità.