ridere

N.44 Novembre 2023

rubrica

Chi ride Boris ride due volte

«Facciamo un bel film alla Gomorra – un grande libro un grande regista – in un film dove si capisce e non si capisce». A parlare è Sergio Vannucci, il direttore di produzione scafato che, per risollevare il morale del regista René Ferretti, gli propone una formula dal sicuro successo: il film impegnato, dove anche qualsiasi errore o imprecisione può essere giustificato come una geniale scelta autoriale.

D’altra parte, come dargli torto: dopo essere scappato dal set de Il giovane Ratzinger, perché costretto dalla produzione a girare in rallenty una scena di giubilo del protagonista che corre immerso in un campo di grano alla notizia della scoperta del vaccino antipolio, il regista aspira legittimamente a realizzare un film d’autore.

L’ironia – qualche lettore l’avrà riconosciuta – è quella tipica di Boris, una serie in quattro stagioni (2007-2010 e 2022) più un film (2011, diretto da Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo, gli sceneggiatori della serie) divenuta un cult tra il pubblico giovane italiano.

Oggi si possono trovare libri (seri) sulla fenomenologia di Boris (cfr. Matteo Marinello, Backstage all’italiana. Televisione, comicità e immaginario nazionale in “Boris”, la serie, Edizioni Estemporanee, 2022), raccolte di frasi emblematiche (Gianluca Cherubini, Marco Ercole, Il vangelo secondo Boris, 2022) e innumerevoli riferimenti, anche nel linguaggio comune, all’improbabile cast che si raccoglie sul set di una immaginaria fiction, dall’emblematico titolo Gli occhi del cuore 2.

Uno dei principali motivi del successo della serie risiede proprio nell’aspetto metalinguistico: Boris è una fiction su una fiction, che ne reduplica, ad uso degli spettatori, il mondo dietro le quinte, il set, il “farsi” della fiction. E questa rivelazione di ciò che c’è dietro il mondo apparentemente perfetto e irreale ma magico, portato sullo schermo, è un filo rosso che scorre fin dalle origini del cinema, capace di gratificare gli spettatori. Basti pensare, solo per fare alcuni esempi molto diversi, al delizioso libretto scritto da Mario Soldati nel 1935 con lo pseudonimo di Franco Pallavera, 24 ore in uno studio cinematografico, oppure al Jerry Lewis nei panni de Il mattatore di Hollywood (1961), o ancora ad Ave, Cesare! dei fratelli Coen (2016), ambientato tra le star e gli sceneggiatori della Hollywood maccartista.

Rispetto al più nobile mondo del cinema, il “metaverso” Boris sceglie quello più popolare e quotidiano, dimesso, della televisione, e addirittura di quella più trash, commerciale e dipendente dai gusti (più beceri) del pubblico ben espressa dal titolo della fiction Gli occhi del cuore, che rimanda all’eccesso, a iperboli sentimentali, a cliché che funzionano perché ormai completamente assorbiti nell’immaginario popolare, ma di cui si è (forse) persa l’assurdità (cosa sono, poi, “gli occhi del cuore?”). Per dare credibilità a questo mondo surreale, che mescola i problemi quotidiani ai diktat della produzione all’arte di arrangiarsi, nessun luogo è più adatto di Roma, dove il cinema lo si è sempre fatto, e dove sono cresciuti insieme registi e attrezzisti, direttori della fotografia, segretarie di produzione e attori (aspiranti e star), in un microcosmo surreale e concretissimo al tempo stesso, la cui lingua franca non può che essere un colorito romanesco.

In questo set disfunzionale l’attore che si crede una star (Pietro Sermonti, nei panni dell’incapace e vanitoso Stanis) può trattare con dimestichezza e sufficienza il presunto amico Wim Wenders

oppure pretende di stravolgere il copione, rifiutandosi di aderire a quello che la sceneggiatura prevede per il suo personaggio, perché troppo “compreso” dal ruolo:

Questa indistinzione tra attore e personaggio, con il continuo entrare e uscire dal ruolo, è ben espressa anche dalla partecipazione alle singole puntate di ospiti d’eccezione, che accettano di stare al gioco solitamente rinegoziando la propria immagine presso il grande pubblico. Per esempio Marco Giallini, celeberrimo volto televisivo del commissario Rocco Schiavone, e attore di punta del cinema italiano, prende parte alla terza stagione di Boris nei panni di Valerio, un attore fissato con il metodo di immedesimazione psicologica nei personaggi, che passa giornate intere in carrozzina per interpretare uno psicologo con una disabilità motoria; oppure arriva sul set sudatissimo per essersi calato troppo (sempre per esigenze di copione, ma di un’altra fiction) nel ruolo del ciclista Girardengo.

Lo spettatore opera così una divertente triangolazione tra la persona di Giallini, i suoi ruoli televisivi e cinematografici e la parte che – ironicamente – gli viene cucita addosso dagli sceneggiatori di Boris.

Proprio agli sceneggiatori della serie, tre sfaccendati che hanno il compito di partorire idee brillanti, è riservata l’autoironia di Giacomo Ciarrapico, Luca Vendruscolo e Mattia Torre (quest’ultimo venuto prematuramente a mancare nel 2019): sono loro i grandi burattinai della serie che disegnano itinerari improbabili, abbondano di luoghi comuni, o si affidano a trovate di cui non conoscono a pieno il significato:

L’ironia di Boris è quella di un sottobosco televisivo che si racconta senza vergogne e reticenze, accettando (e anzi cavalcandolo) il senso del ridicolo, del dimesso, dell’ipocrisia di una televisione che è specchio (sempre un po’ sporco) di un Paese mediocre.

Insomma un mondo assurdo, se visto da quel pesce rosso che sta in una boccia di vetro che il regista porta sempre con sé sul set come un portafortuna. Boris è lui. E Boris siamo tutti noi che, per capire l’ironia di questa “fuori-serie” (come si definiva la prima stagione), dobbiamo accettare di guardare la televisione da un’altra posizione, fuori dalla passività, per coglierne tutti i luoghi comuni, magari dallo schermo di una boccia di vetro.

È solo così che si capisce che l’ironia su Gomorra, o su Il giovane Ratzinger non intende scalfire figure come Matteo Garrone o il papa Benedetto XVI: essi attivano l’immaginario, e ci spingono a considerare una rete di riferimenti più vasta (come Fratello sole, sorella luna di Zeffirelli del 1972, o E venne un uomo di Ermanno Olmi del 1965), in una catena di riferimenti che formano la nostra enciclopedia di spettatori.

E chissà che non abbia ispirato Sorrentino per il suo The Young Pope… (la questione è aperta).