scuola

N.13 Settembre 2020

PERIFERIE

Costruirsi un futuro
nella classe dei “dispersi”

Allo IAL Lombardia c'è un corso per i ragazzi che non hanno più accesso al sistema scolastico "standard" Qui imparano un mestiere e conquistano il loro riscatto

foto IAL

C’è una classe di cui si sa poco, sfugge alle statistiche e ai decreti ministeriali. Forse perché non è esattamente il tipo di classe a cui siamo abituati. Forse perché non è che hai tanto da battere la grancassa se ti hanno affibbiato il nome di “corso dei dispersi”.

«Qui – racconta con un sorriso bonario Maurizia Calabrese, operatrice sociale dello Ial (Innovazione Apprendimento Lavoro)
di Cremona – siamo considerati l’ultimo livello scolastico. Anzi, quasi nemmeno una scuola».

Lo sanno bene, i “dispersi”. E non ne fanno un dramma. Anzi. È proprio qui che vedono quello spiraglio di futuro che non hanno trovato nella “scuola vera”. Sono quei ragazzi che per un motivo o per un altro sono usciti dai percorsi di istruzione, che non hanno mai conseguito un titolo e che per età sono ormai fuori dalla fascia di obbligo scolastico. Sono stati bocciati, non hanno trovato appoggio nelle famiglie, non si sono presentati in aula per anni, qualcuno di loro ha avuto qualche problema con la legge, altri invece fanno i conti con fragilità di altro genere. Dal corso dei dispersi sono passati ragazzi e ragazze con disturbi psichiatrici che proprio in aula non ci potevano stare per la fobia dei luoghi affollati, altri che non riuscivano a presentarsi in aula puntuali al mattino perché l’isolamento sociale e la dipendenza patologica da videogames li tenevano svegli tutta la notte.

Erano fuori. Senza futuro. Dispersi.

Tre di loro, quest’anno, in barba al covid e alla didattica a distanza – che già ha messo a dura prova gli studenti curriculari che a casa hanno un computer, una connessione veloce e i programmi da seguire, figurarsi loro che qui imparano un lavoro – hanno sostenuto l’esame di qualifica professionale. Hanno tra i 21 e i 22 anni, sono arrivati in Italia soli qualche anno fa, con una lingua da imparare e un sistema scolastico che non sempre ti lascia il tempo di recuperare. Due di loro hanno ottenuto un contratto e uno proseguirà il proprio percorso di formazione iscrivendosi al quarto anno per passare da “operatore” a “tecnico”. Altri nove hanno superato il secondo anno e ora possono scegliere se proseguire qui o rientrare nel percorso scolastico in un istituto IeFP.

«Il corso – spiega Maurizia Calabrese – si svolge in 800 ore annuali: 400 in aula con discipline di studio e 400 di tirocinio in azienda. Quest’anno abbiamo svolto quello per operatori meccanici e carrozzieri. In passato c’è stato anche quello per grafici multimediali. Li attiviamo sulla base degli iscritti e delle loro esigenze». Quest’anno il lockdown li ha sorpresi a metà dello stage. La DAD non lo può sostituire, ma il team dello Ial ha proposto ai ragazzi dei project work: il prof di meccanica ha simulato un incidente con la vespa e ha chiesto di rispondere con un video in cui l’allievo dava prova della sua capacità di accoglienza in officina, formulava la diagnosi e proponeva un preventivo per sistemare lo scooter; altri lavori a casa prevedevano la progettazione di una parete per attrezzi, la simulazione di un tagliando di controllo per auto ibride, la messa a punto di una bicicletta: freni, fanali e tinteggiatura compresi.

Pensiamo che imparare a fare qualcosa
che potrà garantire un futuro
a questi ragazzi
sia più importante di arrivare al sei

«Questa è una scuola del saper fare. Usiamo strumenti e tecnologie all’avanguardia che i ragazzi ritrovano nelle aziende dove svolgono il tirocinio, e ci mettiamo un po’ di creatività. Pensiamo che imparare a fare qualcosa che potrà garantire un futuro a questi ragazzi sia più importante di arrivare al 6 nelle materie di studio. L’obiettivo è quello di costruire qualcosa». Qualcosa come una cassetta degli attrezzi. Qualcosa come un futuro per una vita che sembrava dispersa.

Per questo il corso si adatta alle esigenze dell’alunno, anche con percorsi personalizzati. «Loro sanno di aver fallito, non sapevano dove andare, ma vogliono togliersi di dosso l’etichetta di “sfigati” perché non sono riusciti a finire la scuola». La scuola “giusta” che ad un certo punto deve chiedere a te di adattarsi, di “starci dentro”.

Il fenomeno della dispersione scolastica, secondo gli ultimi dati del Miur (2019) è in calo, ma riguarda circa 120mila studenti italiani in un anno scolastico: tra il 2016/17 e il 2017/18, ultimo periodo analizzato dal Ministero circa 20mila alunni hanno abbandonato durante il ciclo secondario di primo grado e poco meno di 100mila durante quello di secondo grado. Le percentuali per la Lombardia non sono tali da far gridare all’allarme. E il silenzio, così amplificato, sospinge ancora un po’ più lontano chi è finito ai margini.

E così «l’ultimo livello», per qualcuno, diventa un’opportunità. Di carrozzieri del resto se ne trovano pochi, anche fuori dalle aule degli istituti professionali. Al “corso dei dispersi” si arriva a volte con l’aiuto dei servizi sociali, o grazie al passaparola con qualche amico che ci è passato ed oggi ha un lavoro. Qualche volte è un decreto del tribunale a indicare la strada, spesso la necessità di crearsi uno sbocco lavorativo per rinnovare il permesso di soggiorno, oppure perché senza una qualifica si resta a piedi e senza uno stipendio la vita può essere ancora più dura.

Così, per un motivo o per un altro, arrivano motivati. Alle porte dell’età adulta, con un futuro che spaventa e l’ultima carta da giocare.

«Sono qui perché scelgono di esserci».

Perché si è dispersi, solo finché non si trova una strada. E qualcuno con cui percorrerla.