colori
N.19 Marzo 2021
Il giorno che segnai un gol al Ragno nero
Aristide Guarneri e i colori di un calcio in bianco e nero: il nerazzurro del Mago l'Azzurro Italia il grigiorosso del cuore e quel pallone storico uscito da una foto d'epoca
In famiglia l’Inter non è solamente una squadra di calcio. È una religione. Aristide Guarneri, 83 anni compiuti da qualche settimana, fratello di mia nonna materna, è stato lo stopper della squadra allenata da Helenio Herrera che vinse negli anni sessanta tre scudetti, due Coppe dei Campioni e due Coppe Intercontinentali.
Era un calcio in bianco e nero, stesso interesse storico e sociale, meno strillato di quello di oggi. Almeno così mi hanno sempre raccontato. La miglior istantanea di questa distanza la offre un aneddoto più volte confidatomi da mia zia Cnidia, sorella maggiore di Aristide: «Nella seconda metà degli anni Sessanta ci trasferimmo in Corso Vittorio Emanuele in una bella casa di proprietà del Dottor Foletti. Vivevamo tutti assieme sotto lo stesso tetto. La zia Pina ogni tanto ci aiutava nelle pulizie. Ai tempi, a Renato, un amico sarto, piaceva farle gli scherzi telefonici. Un giorno chiamò Ferruccio Valcareggi e per tre volte lei riattaccò scambiandolo proprio per Renato e rispondendo in dialetto cremonese: lassa pür lè, ghe caschi mia! Rischiò di saltare la convocazione…».
Allora Valcareggi era l’allenatore della nazionale italiana, che di lì a poco sarebbe diventata campione d’Europa nel 1968 a Roma.
Guarneri esordì in azzurro nel 1963 contro il Brasile.
«Feci l’unico gol l’1 novembre 1966, nella gara contro la Russia, la prima dopo la debacle dei mondiali di Inghilterra e la dolorosa sconfitta contro la Corea». Il racconto è consegnato alla storia del pallone: minuto 22 del primo tempo, San Siro; Mazzola si invola sulla sinistra: «Mi sono detto: massì vado avanti, tanto prima del cross qualcuno la tocca e sul corner torno indietro. Invece la palla rotolò in area. Tiro di collo e supero Yashin. Non ci credevo».
Già perché Yashin non era un portiere qualunque: tre anni prima con la Dinamo Mosca aveva conquistato il Pallone d’Oro. Resta l’unico nella storia del ruolo ad aver conquistato il titolo di miglior calciatore d’Europa. «Alla fine della partita – ricorda il difensore cremonese, che non ha certo costruito la sua carriera sui gol segnati – all’arbitro dissi: il pallone stavolta torna a casa con me. Yashin era un omone di un metro e novanta, per tutti “Il ragno nero”, per via di quella divisa sempre scura che indossava. Era un mito e una persona per bene».
Quel pallone è una delle tante fotografie della carriera straordinaria di quello che per tutti diventerà “lo stopper gentiluomo”: «Non ricordo chi mi diede quel soprannome. Il merito fu soprattutto di Picchi. Io giocavo stopper, lui libero. Prima della partita Armando mi diceva: tu cerca l’anticipo, se passa ci penso io. Contatti diretti pochi. Non sono mai stato espulso nella mia carriera. Mi hanno premiato perché per due stagioni non ho collezionato nemmeno una ammonizione. Ai miei tempi penso esistesse più sportività: chi subiva fallo non faceva le scene di adesso». Nella grande Inter era perno di un sistema difensivo granitico: «Arrivai a Milano nel 1958. Vivevo, nella stessa stanza con Mario Corso, in un bellissimo appartamento di 250 metri quadrati, a Porta Romana, abitato da una vedova e suo figlio. Ci serviva solamente per dormire: o ci allenavamo o eravamo in ritiro a Como, rigorosamente fino al lunedì come voleva il mago Herrera. Era una Milano diversa: si poteva andare in macchina in Piazza del Duomo. Stavamo bene, la società ci trattava con i guanti, non ci ha mai fatto mancare nulla. Ricordo una trasferta in Scozia per una amichevole. Non avevamo i bagni in camera. Herrera andò al bureau e chiese: qual è il miglior hotel della città? Fatte le valigie, siamo andati via…In Europa viaggiavamo con un aereo privato».
Sport e storia si intrecciano in un rincorrersi continuo: «Ho vivo negli occhi l’incontro con Padre Pio. Nel mese di gennaio del 1965 era in programma la trasferta a Foggia. Il sabato al Mago venne in mente di andare a San Giovanni Rotondo. Eravamo tutti emozionati. Picchi volle confessarsi. Capimmo subito che non eravamo di fronte ad una persona normale, percepivamo qualcosa di speciale. Il giorno successivo fummo sconfitti 3-2, ma da quel momento non perdemmo più pareggiando solamente due volte. A giugno eravamo davanti a tutti: il Milan tre punti dietro».
Non dimentica però gli inizi, nella sua Cremona, città a cui è sempre stato legatissimo: «I primi calci li ho tirati all’oratorio Silvio Pellico. Giocavamo in strada con un pallone di pezza. Quello vero ce l’aveva il Don. Allora mi chiamavano Balisto. Appena arrivato all’Inter, Guc, come diminutivo di gucion, dal detto “sunti mia el fiol de gucion” per dire “non sono mica il figlio di nessuno”. Ma Cremona per me è anche il ricordo di mio padre Giuseppe, pittore e scultore, appassionato di arte greca. Scolpì un busto in bronzo per Angelo Moratti che allora la famiglia custodiva nella villa di Imbersago. Non dimentico nemmeno la mia Cremonese: fui capitano dal 1971 al 1973 contribuendo ad una promozione in serie C. Da allenatore vado fiero dello scudetto del 1974 con la Berretti nella quale giocava un certo Antonio Cabrini». Un altro campione cremonese, di un calcio che nel frattempo, era già a colori.