casa

N.17 Gennaio 2021

HOMELESS

La notte prima di un altro “primo giorno”

Giuseppe ha perso il lavoro e con quello gli affetti e la casa Ha passato un mese ai giardini, a battersi con freddo e fantasmi Ora ha trovato un riparo al Rifugio notturno della Caritas, non si è arreso e domani...

Mi chiedo se ce la farei. Perché raccontare ciò che avrei voluto io stesso evitare?
Entro nella piccola anticamera del rifugio notturno con la prima domanda annotata sul taccuino: perché ha accettato questa intervista?
Di Giuseppe conosco il nome e i contorni della storia che l’ha portato a trascorrere le notti di questo inverno nel piccolo dormitorio che la Caritas anche quest’anno è riuscita a mettere a disposizione per chi non ha un altro luogo dove finire le giornate al riparo dal gelo.
Ma non va così.
Iniziamo toccandoci i gomiti. Giuseppe sorride con gli occhi sopra il bordo della mascherina. Ci accoglie come si fa con due ospiti in casa propria, anche se il tavolo non è apparecchiato.
«Domani inizio a lavorare».
La notizia, il tono soddisfatto ma senza troppa enfasi cambiano la prospettiva. Rovesciano le mie attese (e forse pure qualche banale stereotipo). Oppure saranno gli occhiali con la montatura verse, le scarpe pulite, l’aspetto curato. Nessun segno di vergogna.
Giuseppe ha la sua storia da raccontare. «Forse ho fatto qualche scelta azzardata» sospirerà di lì a poco. Ma senza rassegnazione, come uno che ha smesso di giudicarsi e ha preferito darsi da fare. A guardare avanti piuttosto che a un passato da cui è inutile scappare semplicemente perché è… passato.

I suoi genitori sono cremonesi, il papà di Vescovato, la mamma di Pescarolo. La sua vita poi lo ha portato altrove: in Brianza, poi a Felino, il paese parmigiano famoso per il salame. Viveva lì con la compagna, aveva un lavoro: «Nettezza urbana: ho pulito i parchi e le aree verdi, poi mi sono occupato di raccolta notturna in centro storico. Scaduti i 18 mesi, però, l’appalto alla cooperativa per cui lavoravo non è stato confermato». E Giuseppe, a 59 anni, si è ritrovato senza uno stipendio. E oggi, con la pandemia e la crisi economica che allunga ombre cupe su tutto e tutti, rimettersi sul mercato diventa un’impresa. Anche per uno che – perito chimico – nella sua vita ha sempre avuto un impego per le mani (tornitore, pubblicitario, tecnico di laboratorio… «allora il lavoro si trovava al bar» ricorda, «e non è una metafora»), ha una casa di cui può pagare l’affitto e un affetto stabile ad aspettarlo la sera.

«Allora
il lavoro
si trovava
al bar»

«Ma se manca il lavoro tutto precipita. Anche in casa crescono le tensioni e i litigi… E io – abbassa gli occhi arrossati – faccio fatica a restare dove mi sento di troppo. Non do colpe a nessuno, ho preso le mie decisioni».
Giuseppe se n’è andato senza sapere dove: «Dal 30 novembre del 2019 sono senza una casa». Ma non è uno che si arrende: è tornato a Cremona, poi ha immaginato che Milano avesse qualcosa in più da offrire «sia per il lavoro, sia per le strutture di accoglienza».
Tra disoccupazione e la paga per distribuire i giornali freepress in metro alla stazione Centrale è arrivato a guadagnare 280 euro in un mese, per qualche tempo ha poi trovato un posto di custode in un centro di accoglienza per senzatetto… come lui.
«All’improvviso ti ritrovi a dormire in stanzoni con 70/80 persone. Ti adegui, ma non è facile. Devi cercare di conservare quel minimo di serenità che ti permette di “esserci”… come persona intendo». L’importante è non perdersi tra la paura di essere derubato o peggio e le minacce delle dipendenze: «Quando inizi a pensare che la tua vita potrebbe continuare così a lungo, non hai un lavoro che ti riempie la giornata e ti mantiene in relazione, l’alcol è un richiamo forte. Lo è stato anche per me: bere ti annebbia, fa calare il carico che hai sulle spalle e nella testa. Però sono riuscito a capire il momento in cui è meglio fermarsi».

Il momento per Giuseppe è stato quello più buio: tornato di nuovo a Cremona, prima dell’apertura del rifugio notturno ha dormito ai giardini di Piazza Roma, su una panchina. «Fa paura. Ma poi diventi fatalista: succeda quello che deve. Ci perdi un telefono su cui avevi tutti i numeri, il curriculum… ma poi pensi che poteva anche andarti peggio».
Non glielo ha detto un medico, ma pensa di aver sofferto di depressione. I sintomi? «Non hai voglia di alzarti dalla panchina dove hai passato la notte. Ma poi vedi le persone passare e ti scuoti».
La sua presenza discreta a poco a poco è diventata abituale e qualcuno si è fermato a scambiare due parole con quest’uomo di mezza età dall’aria tranquilla che, una volta alzato dalla sua panchina, dava l’impressione di essere a passeggio. «Così ho conosciuto persone. Il primo è stato il ciabattino. Un signore che ancora vado a trovare in bottega per scambiare qualche chiacchiera. Mi ha regalato un telefono nuovo e mi ha dato una mano, presentandomi dei suoi amici».
Uno di questi lo ha messo in contatto con l’azienda di vigilanza che poco fa gli ha scritto un messaggio: «Leggo dopo – dice con cortesia – forse è il nuovo lavoro».
Perché aspettare? Giuseppe si cala gli occhiali con la montatura verde che tiene sulla fronte. Il cellulare è un modello vecchio, il display ha qualche crepa, ma lo tiene tra le mani come accarezzasse una mappa del tesoro che custodisce il segreto del tempo: «Domani mattina, serve un modulo… dopo rispondo».

«Devi cercare di conservare
quel minimo di serenità
che ti permette di “esserci”…
come persona intendo»

La forza di cambiare città, di cercare senza arrendersi, di respingere la bottiglia, di condividere la stanza con sconosciuti badando di non fare sapere di avere un telefono o due spiccioli in tasca, rialzarsi da quella panchina… questa forza ha spinto Giuseppe dentro quella rete silenziosa di una solidarietà diffusa e nascosta, che non fa notizia ma che rende le nostre città un luogo in cui potersi anche perdere senza che debba essere per sempre.
«Serve coraggio per chiedere aiuto. Io non avevo mai avuto bisogno, ma quando ti trovi in una necessità da cui non puoi uscire con le tue forze c’è chi ti può ascoltare».
Dalla porta aperta si vedono i letti a castello del dormitorio. Sta calando la sera, tra poco gli “inquilini” rincaseranno. Esausti non per lo sforzo fisico ma per la fatica di tenere a bada il freddo che – ora dopo ora – entra nelle ossa e affila i pensieri.
«Mi manca la libertà di una casa mia. Ma non mi vergogno. In questi mesi ho imparato che anche se al mondo non siamo tutti santi, nelle persone c’è del buono. Anche qui dentro: ognuno ha il suo carico, ma c’è rispetto. E se capisci di essere ancora in grado di stare con le persone, senza paura dei giudizi, la tua mente ti dice che devi insistere. Questo non è quello che volevo per me, ma so che le cose possono cambiare».

«C’è chi si accontenta del rifugio – racconta Alessio – operatore della Caritas cremonese – mentre con persone come Giuseppe si può ragionare in prospettiva». In questi giorni sta aspettando una risposta dai servizi sociali del comune di residenza. Ma domani è il primo giorno di lavoro.
«Non sono ottimista. Non lo sono mai stato, così evito delusioni. Cerco di stare con i piedi per terra. Domani inizio a lavorare, ma non voglio costruire castelli… Se continuerà magari potrò permettermi una stanzetta tutta mia».