colori
N.19 Marzo 2021
La pelle è un diario di bordo (e i nonni saranno a colori)
Scelti per seguire la moda, per ricordare un volto, oppure per coprire una ferita... Ne parliamo con un artista che ne ha fatto un mestiere e curiosamente osserva che «stiamo perdendo il valore del "per sempre"»
Nero su bianco, inchiostro su pelle. Il corpo è un foglio di carta, una mappa, un diario in cui raccogliere i momenti più importanti da portare con sé. Un concetto sottile, condensato in un tratto che segna e disegna, indelebile.
«Ho sempre avuto l’abitudine di personalizzare ciò che mi appartiene: apprezzo ciò che è diverso, unico, e desideravo fare lo stesso con il mio corpo». Dim Delgado ha 29 anni, da dieci è tatuatore. Vive e lavora a Cremona, la sua città d’origine, dove nel 2017 ha aperto il proprio studio per trasformare la propria passione nella professione che lo contraddistingue. Lo ricorda il suo primo tatuaggio: «Il simbolo “yin e yang”, gli opposti complementari», svela. «Un classico, ma è uno di quelli che ho sempre deciso di non ricoprire, il significato e la forza che esprime mi rispecchiano ancora».
Oggi il suo corpo è tatuato al 90 per cento: la gamba destra, “regalata” ad un collega e caro amico, ospita un enorme drago, emblema di forza e saggezza. La sinistra è una sorta di diario di bordo per collezionare istanti, richiami a persone o momenti preziosi, da portare con sé.
Dalla vita in su, gli strati d’inchiostro si alternano su più livelli, come la somma delle esperienze collezionate. «Per qualcuno tatuarsi è un’eccezione, per altri una necessità… E quando la superficie si esaurisce, si può sovrascrivere». Come la maschera balinese che porta sulla schiena, frutto di due coperture, «perché anche io da giovane ho fatto i miei errori», ammette l’artista. «Dico sempre che sono un pirata: per ogni momento significativo faccio un tatuaggio, perché voglio fissarlo sulla pelle».
Una scelta non reversibile, a ben vedere in controtendenza alla società del cambiamento in cui nulla è permanente. «Fino a 10 o 15 anni fa, il tatuaggio era un fenomeno più raro, perché era più nitido il concetto che fosse un “marchio a vita”, talvolta visto non proprio di buon occhio dalla società». Portarlo non sempre è semplice, soprattutto in una realtà di provincia: «Ammetto che al primo impatto molte persone, soprattutto con una certa età e un certo inquadramento sociale, tendono a non prenderti sul serio. Questo mi ha sempre infastidito, non tanto per il giudizio estetico ma perché ritengo che il mio aspetto non determini ciò che sono: nella vita parlano i fatti».
L’approccio sociale muta nel tempo, sulla scia di mode e modelli proposti da tv, riviste patinate e social media. «Ultimamente si è perso il valore di “per sempre” – commenta Dim – Spesso mi trovo di fronte clienti under 30 che chiedono disegni visti sui vip, le frasi del cantante preferito o lo stemma della squadra del cuore che ha appena vinto lo scudetto… Sono idee più effimere, scelte di pancia, cui spesso seguono ripensamenti anche a distanza di poche settimane». Tra i più ricoperti – manco a dirlo – il celebre “otto rovesciato”, simbolo dell’infinito.
Al disordine di segni e disegni, Dim preferisce un progetto organico, «solido e ben fatto, che mi gratifichi come artista e duri nel tempo». La pelle bianca è oro, «soprattutto quando è campo libero per dare forma a un’idea». Predilige figure con linee definite, colori forti e sfumature consistenti e s’ispira ai tradizionali americani o giapponesi, radicati in una tradizione millenaria. «La decorazione del corpo è parte della razza umana fin dall’alba dei tempi, che sia per appartenersi o per distinguersi».
A chi teme di stufarsi o si preoccupa di come il disegno invecchierà con il corpo, Dim risponde che «è il corpo a diventare “brutto”, non il disegno….Ma non sarà quello il problema principale della vecchiaia. Trovo affascinante che il tatuaggio invecchi con la persona. A pensarci bene, saremo la prima generazione di anziani tatuati: i quindicenni saranno bianchi… E i nonni colorati – ride – Ognuno con le proprie storie addosso».
Sono tantissime quelle trascritte su pelle in dodici anni di lavoro: «Le più profonde sono legate alla perdita di una persona cara, un traguardo raggiunto o la lotta contro una malattia». C’è chi si rivolge a lui per nascondere una cicatrice, «per cancellare un ricordo doloroso o per proteggersi dallo sguardo degli altri». All’artista il compito di trasformare un desiderio in un’immagine: « Nei primi anni vivi questa professione come qualcosa di magico, poi subentra l’abitudine, il mestiere…Ma è sempre un brivido mettere la propria firma sulla pelle di un’altra persona, che ti sceglie per sentirsi migliore, più forte».
Il dolore legato alla pratica è spesso un aspetto sottovalutato: «È banale dirlo, ma il tatuaggio fa male -specifica – E forse è nato anche un po’ per questo, come prova di forza, un rito di passaggio. Può sembrare un controsenso, ma anche il dolore è una sensazione da vivere, da attraversare». Per questo il rapporto con chi sta all’altro lato dell’ago è fondamentale: il contatto è connessione, sintonia da costruire nel tempo condiviso, durante quel più o meno breve tratto d’inchiostro.