cibo
N.15 Novembre 2020
L’elemento che ci tiene in contatto (anche ora)
Bisogno essenziale. Ristoranti chiusi.
Non c’è cultura, non c’è territorio; non c’è – in fondo – comunità che non sia in qualche modo descritta e tenuta insieme dalla propria relazione con il cibo.
Non facciamo eccezione.
A farci caso, però, le specialità gastronomiche, le colture e le ricette, sono il tratto più aperto delle nostre identità. Nei campi, in cucina e ancor più a tavola le differenze non stridono, anche quando sono sventolate con orgoglio nelle bonarie dispute attorno alle origini controllate e alle ricette segrete.
De gustibus, si dice. Oppure sarà solo che nei piatti – come i colori che dalla buccia di una cipolla sgorgano e si posano sulla tela – è normale mescolare. Mescolarsi. Come accade nella cucina di una giovane mamma indiana che inventa con i suoi bimbi profumi nuovi, tra pastasciutta e spezie del Punjab.
I profumi ci raggiungono, le ricette si scambiano, i menù si adattano. Ai nostri ritmi, ai nostri viaggi, alle nostre quarantene. Con un piatto ci raccontiamo e raccontiamo il tempo: quello delle torte fatte in casa, degli impasti improvvisati, delle fotografie condivise sui social che sembra di sentirla, la fragranza della torta che a nonna – però – veniva meglio.
Tutta la nostra grande tradizione, coltivata, riscoperta, interpretata, scagliata in un presente inatteso in cui non si apparecchiano tavole, non ci si dà appuntamento, non si imbandiscono tavole. Non si fanno feste.
Eppure il cibo continua a definirci, a raccontarci. E se non è – almeno per un po’ – la sua natura conviviale, il suo rito insieme intimo e comunitario che – non a caso – ne fa un segno potente per la religione, è la sua natura di bisogno primario.
Con le porte chiuse il cibo trova nuove strade per muoversi, tenerci in contatto. Pizze e brioches d’asporto, pasti a domicilio: le esperienze di solidarietà donano un profumo nuovo ai quartieri e ai paesi intimoriti dal virus; la collisione con l’incertezza apre lo sguardo verso un futuro responsabile, sostenibile… buono.
Ecco perché saremmo andati avanti altri giorni, altre settimane, a raccogliere storie di cibo. Storie sul cibo. A infilarci gambali insieme ai ragazzi della Fondazione Sospiro che coltivano frutta per le loro marmellate sorridendo anche se il fango si attacca alle suole e alle ruote della carriola; a legare salami e cotechini come non pensavamo si usasse più (e invece…), ad ascoltare le idee nuove che tengono insieme le parti di una terra che continua a produrre, conservando antiche ricette e sapori unici e inventando percorsi “corti e solidali” per condividere (senza sprecare, senza sfinire…).
Abbiamo incontrato il sorriso di Maria, che con i piedi nell’acqua andava “a far la mondina” nelle risaie del pavese più di settant’anni fa, e il riscatto di Bianca N., diventata quasi trasparente davanti allo specchio deformante dell’anoressia, finché ha trovato il suo ingrediente segreto. E ce lo ha suggerito, mescolandolo alle fragilità di ciascuno: «È l’amore che salva. Quello per se stessi, per gli altri, per la vita che torna a bussare, caparbia e impetuosa».