età
N.36 Dicembre 2022
L’età… dell’innocenza
Vivere (o ri-vivere) incubi ed emozioni nel cinema che racconta i passaggi cruciali tra le stagioni della vita. E i personaggi siamo noi
Il cinema – e in generale gli audiovisivi – hanno la straordinaria capacità di raccontare il tempo, il suo fluire e le stagioni che lo attraversano, dando allo spettatore l’idea di poterlo vivere insieme ai personaggi sullo schermo. E non vi è dubbio che una quantità notevole di racconti, nell’immensa produzione di fiction, sia occupato dalle storie che mettono in scena i tempi cruciali della vita, ossia le fasi di passaggio, come quelle che vanno dall’infanzia alla giovinezza, dall’età dei sogni a quella matura, o ancora – più raramente – dal termine della vita attiva alla vecchiaia. Non importa che l’arco cronologico del racconto sia breve o lungo: pochi giorni o lunghi anni devono in ogni caso restituire il senso di un’esperienza significativa e stravolgente, percepita tale da chi la vive in prima persona, e destinata a porre le premesse per l’ingresso nella fase successiva.
È quello che accade nei racconti di formazione, come ci ha insegnato Franco Moretti nel suo celebre saggio dedicato alla letteratura (1986-1999): le avventure conoscitive, le esperienze importanti sono spesso collocate nella fase che occupa la giovinezza fino all’ingresso nella maturità, quando si è più liberi e aperti al nuovo, prima di essere gravati da responsabilità familiari. Pertanto, la narrazione è pervasa da un misto di curiosità e nostalgia: la prima nei confronti dell’ignoto che sta per manifestarsi e che orienterà per sempre il percorso biografico; la seconda per la consapevolezza di chi racconta (a posteriori) che, con l’infanzia o la giovinezza, qualcosa se ne è andato per sempre, e che il tempo vissuto non potrà più ritornare. È forse proprio questo aspetto ad avvincere lo spettatore, che integra il racconto con la propria esperienza, rivivendo in prima persona quanto viene narrato, o prefigurando personali destini futuri.
Oggi – in un’epoca nella quale la distinzione tra le tappe dell’evoluzione biologica si è allentata – possiamo senz’altro allargare a tutte le fasi della vita questa consapevolezza di momenti topici, destinati a proiettarci in un orizzonte futuro e in una diversa stagione: abbiamo imparato che non solo l’infanzia e la giovinezza, ma ogni tappa esistenziale è un’occasione di formazione che prepara a quella successiva.
È quanto accade del delicatissimo Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera (2003) del regista coreano Kim Ki-duk, un film che racconta, nel suo apparente minimalismo, le stagioni della vita di un monaco buddista con rigore e poesia, raffreddando il bisogno della narrazione a effetto con un’ambientazione in una natura lussureggiante, sulle rive di un lago, che induce alla meditazione, a distillare il senso dell’esperienza. Così scrive il regista: «Intendo illustrare la gioia, l’ira e il piacere delle nostre vite attraverso le quattro stagioni e attraverso la vita di un monaco che vive in un tempo circondato solo dalla natura, sul lago Jusan. Le cinque storie del Monaco bambino, Monaco ragazzo, Monaco adulto e Monaco anziano coesisteranno con le immagini di ogni stagione. Le qualità mutanti negli esseri viventi, il significato della maturità delle nostre vite che si formano e si sviluppano, la crudeltà dell’innocenza, l’ossessione dei desideri, il dolore nelle intenzioni delittuose e l’emancipazione nelle lotte».
Una simile fusione dei personaggi con la natura circostante è al centro di Fauve, un cortometraggio del regista canadese Jeremy Comte vincitore di numerosi premi e candidato all’Oscar per la categoria nel 2018.
Il regista, un giovane canadese laureatosi in cinema, autore di numerosi cortometraggi, traspone in una storia breve ma intensa suoi incubi infantili. Due ragazzini passeggiano liberi in una natura segnata da spazi verdi e da treni abbandonati, che escludono la presenza degli adulti. Si divertono facendo giochi improntati a una crudele innocenza, come quello di tirarsi dei sassi; prove di forza in cui si sfidano, un po’ complici e un po’ rivali. La qualità estetica della fotografia invita lo spettatore a vivere il racconto dall’interno, affascinato dalla bellezza di una natura invitante, come nel momento in cui uno dei due ragazzini – e lo spettatore con lui – intravvede una volpe. Ma l’indugio è segno di debolezza, così l’altro evita di girarsi a guardare. A un certo punto i due si trovano di fronte a una vasta cava a cielo aperto incustodita: un paesaggio affascinante e spettrale a un tempo, al cui centro campeggia un invitante laghetto dall’acqua chiara. È a questo punto che il gioco finisce di essere tale e si trasforma poco a poco in tragedia per uno dei ragazzi, di fronte a una natura spettacolare e insensibile, nella totale inconsapevolezza degli adulti e nella disperata vanità degli interventi dell’amico.
Ma il cortometraggio non termina qui. È il vissuto di chi rimane a farsi un macigno. A poco vale l’aiuto di una donna di passaggio in auto. Tyler riesce solo a balbettare qualche parola sconnessa: «Je… mon ami…». Ma sarà la vista di una volpe, che taglia la strada alla donna, a scuoterlo e ridestarlo.
I piani di lettura di questo video, che merita di essere guardato per intero, sono diversi.
Il primo, forse il più immediato, è quello del racconto a sfondo ecologista, che chiama in causa la spettacolarità di una natura affascinante ma non custodita dagli adulti, per questo vulnerabile e pericolosa (soprattutto per chi non la conosce).
Un secondo livello si riferisce ai ragazzini, e investe la portata di relazioni mutuate dagli adulti che, seppur amicali, trasudano forza, sicurezza, e che bandiscono la fragilità o la contemplazione (per esempio della volpe), fallendo nella cura dell’altro.
Infine, il racconto può essere letto come una metafora. A suggerirlo è lo stesso autore, che spiega come sia nato da incubi infantili, trasformati attraverso un racconto fortemente debitore con il reale: il film offre «una sensazione di realtà, con ragazzi che giocano a questo gioco così duro e affascinante allo stesso tempo. Si piacciono, stanno solo giocando. Ma, alla fine della giornata, diventa parte del ciclo della natura e di una storia di formazione con tragedia. Attraverso ciò, affrontano la vita e le conseguenze della vita. Per me, deriva da una sensazione molto visiva di perdere il controllo, ed è la metafora dell’essere nelle sabbie mobili e di essere bloccato dall’ansia» .
La storia di Tyler e Benjamin, nell’inconsapevolezza dell’età dell’infanzia quando «agisci d’impulso e non pensi nemmeno alle conseguenze delle tue azioni», seppure breve, sprigiona una notevole potenza narrativa. E regala allo spettatore la capacità di attraversare un caleidoscopio di emozioni – dalla gioia all’ansia, dal senso di libertà alla paura, dall’azione al rimpianto – come accade quando si è ragazzi …