casa
N.17 Gennaio 2021
Quel che ci resta del “fattore campo”
Che è successo al "giocare in casa" con lo svuotamento delle tribune Perché non bastano le telecamere e qualche ritratto cartonato a gonfiare il petto dei beniamini locali
«Si gioca in casa», cantavano trionfalmente i tifosi della squadra in trasferta quando riuscivano a soverchiare a domicilio i sostenitori avversari per sonorità dei cori. Era il suggello di una simbolica conquista della roccaforte “nemica”, e nel calcio con i simboli non si scherza. Il messaggio era diretto anche alla squadra: noi tifosi vi abbiamo spianato la strada, mettendovi in condizione di giocare in casa, adesso voi fate il vostro dovere: vincete la partita. Cosa “ovviamente” più facile quando si gioca in casa.
Perché giocare in casa è uno dei più collaudati capisaldi della cultura calcistica: il campo di casa è la tua tana, è il totem intorno al quale si fanno le danze di guerra per caricarsi prima di tentare le imprese più improbabili, le rimonte più disperate. Vincere in trasferta è una prodezza, vincere in casa è un dovere. Perché il fattore campo è una specie di pozione magica capace di sovvertire anche i rapporti di forze più squilibrati.
Ma che cosa resta di tutto questo, in questi tempi di stadi deserti? In questi gusci vuoti ce n’è ancora qualche residuo? O è un simbolo svuotato di contenuti? Siamo nell’epoca del calcio giocato (deportato) in un enorme campo neutro?
Le statistiche dicono che qualche spicciolo rimane. Il “fattore campo” ha perso valore come una moneta inflazionata, ma non lo ha visto azzerare. Possiamo immaginare qualcosa: nel tuo spogliatoio hai il tuo armadietto, ritrovi le manopole della doccia che hai imparato a calibrare per ottenere la temperatura perfetta dell’acqua. Spiccioli, appunto.
Poi ti affacci al campo, e invece del ruggito del tifo di casa, silenzio. Tu e i tuoi compagni urlate per rompere la cappa di niente che vi avvolge, ma è come dare zuccate nel muro. In queste condizioni giocare in casa è perfino peggio, più straniante, che giocare fuori. Soprattutto all’estero hanno provato a ovviare a questa situazione riempiendo le tribune di sagome che simulano i tifosi, emettendo dagli altoparlanti effetti sonori che simulano la voce della folla. Tentativi pietosi che non ingannano nessuno, un calciatore riconosce a prima vista una simulazione…
A volte c’è qualcosa di più: un amico che lavora all’Entella di Chiavari mi diceva che da quando il club ligure ha sostituito il campo in erba con quello sintetico i suoi risultati in casa ne hanno risentito, i giocatori del campo in erba conoscevano ogni gobbetta, quasi ogni zolla, e avevano imparato a trarne qualche piccolo vantaggio che nell’arco della stagione fruttava qualcosina. E ricordo tanti anni fa lo sconcerto dei giocatori della Cremonese quando, tornando da una trasferta per la Coppa Angloitaliana, raccontavano di aver giocato (mi pare a Barnet, cittadina che ormai è diventata un sobborgo del nord di Londra) su un campo in pendenza. Vero, anche gli avversari giocano un tempo in salita e uno in discesa, ma vuoi mettere esserci abituati?
In situazioni più normali, il tifo è l’ingrediente centrale del “fattore campo”, del “giocare in casa”. Pensando alla situazione attuale mi viene in mente la sigla di Novantesimo minuto, la vecchia trasmissione della Rai, con lo stadio che in pochi secondi si riempie di tifosi, che brulicano come formichine eccitate dalla voglia di partecipare alla partita (partecipare, non assistere). Ecco, immagina quella sigla montata al contrario e hai la triste situazione attuale. Gusci vuoti, templi pagani abbandonati. Sì, i giocatori sanno di essere visti da milioni di occhi alla televisione, ma non è affatto lo stesso almeno per la componente istrionica che è in loro. Vivono l’incubo di ogni attore, dover recitare davanti a una platea vuota. Non c’è da invidiarli.
Per noi cremonesi, casa è lo Zini. Quando io ho incominciato a frequentarlo lo Zini era un bellissimo prato con poca roba intorno, la tribuna centrale coperta da un lato, qualche gradone scoperto (i distinti) dall’altro, e dietro la porta dalla parte di via Persico un piccolo terrapieno appoggiato al muro di cinta e terrazzato quanto bastava perché gli spettatori non rischiassero di scivolare tutti a valle nelle domeniche di pioggia. Il nostro fattore campo era un impasto di passione non organizzata, ci si conosceva un po’ tutti senza conoscersi di persona, mi sembra di ricordare uno (ex bersagliere?) che dai distinti suonava la carica con la tromba, c’era quello che si metteva alla ringhiera dietro la panchina per dare consigli non richiesti e in caso di vittoria vantarsi poi al bar Cremonese di piazza Roma che l’allenatore gli aveva dato retta cambiando le marcature, se a un certo punto non avevi ancora sentito una certa voce baritonale scandire «Alé grigiorossi» ti preoccupavi per la salute del possessore della voce.
E poi per noi il fattore campo comprendeva anche un’arma segreta, la nebbia. Allora mica era come adesso, la partita sospesa si ripeteva dall’inizio, e così in certi pomeriggi invernali, se la situazione sembrava irrimediabile non restava che fare la danza della nebbia, che venisse ad incartare la partita compromessa incoraggiando l’arbitro a fischiare anzitempo la fine. Qualche volta ha funzionato: ne ricordo una con la Pro Patria, sconfitta cancellata per nebbia, vittoria nella ripetizione. La libidine perfetta del tifoso (che, come si sa, ha un’idea diciamo elastica del concetto di sportività: ci successe il contrario a Biella, e ci sentimmo perseguitati dalla sorte), e anche l’esaltazione del “giocare in casa”, del quale noi tifosi grigiorossi ci siamo sentiti possessori in esclusiva di un optional che gli altri ci potevano solo invidiare.
Adesso smetto perché sono preda di un attacco acuto di nostalgia. Per quella casa grigiorossa con i popolari di terra, per quel tifo ingenuo e disorganizzato. E anche un po’ per la sigla di Novantesimo minuto di nuovo montata come si deve, con le formichine che corrono sulle tribune dello stadio invece di scappare via, con la casa del calcio che torna a riempirsi di passione.