magia

N.28 Febbraio 2022

SOCIAL

Ciò che resta (di noi) quando il filtro svanisce

Sul confine sottilissimo tra vita digitale e relazioni reali dove la ricerca di approvazione finisce per mascherare la realtà e rischia di cancellare chi siamo

Il telefono tra le mani. Le nostre immagini affidate alla rete, per raccontarci o forse riconoscerci. Vivendo la vita per metà, solo dal suo lato migliore. Almeno in apparenza. «I mezzi che oggi utilizziamo per connetterci sono uno specchio. E i like la conferma della bellezza che il mondo ci riconosce. Esistiamo se postiamo, se ci mostriamo felici al ristorante, se consegniamo ai social network la nostra intimità, le nostre relazioni». In parole povere, Cartesio si starà rivoltando nella tomba: «Cogito ergo sum? No, oggi Posto ergo sum». Per lo psichiatra Roberto Poli, dirigente medico di Asst Cremona, non è più una questione di metodo. Piuttosto di tendenze: «I social aiutano a mettere in piazza ciò che siamo, alla ricerca di consenso. Ci raccontiamo per mettere a tacere l’invidia. Per dimostrare agli altri che non meritiamo di essere tagliati fuori. Questa è la paura prevalente». Il fenomeno passa sotto il nome di Fomo. L’acronimo sta per fear of missing out e rappresenta il timore di restare esclusi, disconnessi. Di perdere l’attimo. E di perderci.
Lo schermo racconta storie, crea relazioni, aiuta a fare rete. Lo fa a colpi di swipe up in una realtà dove tutto corre. Dove non c’è più tempo. Le notizie scappano, si rincorrono. E i legami, quelli veri, svaniscono. «Stiamo vivendo una rivoluzione sul versante della comunicazione, ma non solo. Le relazioni oggi sono liquide, più fragili. Più semplici da costruire, ma meno profonde». La quotidianità è scandita da collegamenti, da link. Il vuoto si colma con un clic. Non c’è tempo per ascoltare risposte. Ai dubbi, ci pensa Google. Alla fragilità, la rete. No, non quella fatta di mani tese e strette, di occhi lucidi e pensieri condivisi. Piuttosto quella chiusa dentro ad uno schermo, che altro non è che lo specchio di ciò che siamo diventati. «Non è da condannare in senso assoluto, la rete può svolgere anche una funzione di supporto alle persone con fragilità, perché amplia la platea dei followers ed offre nuovi mezzi per comunicare». Oltre, però, restiamo solo noi. «Resta l’immagine di ciò che siamo davvero. Senza filtri».
Senza filtri. All’epoca di Instagram e Tiktok. «La dimensione online amplifica il narcisismo. Più correttamente si parla di narcisismo digitale, di narcisisti vulnerabili. I filtri ci aiutano ad innamorarci della nostra immagine fino a rimanerne paralizzati, proprio come avviene nel mito di Narciso. Con il selfie possiamo scattare foto all’infinito per celebrare la nostra bellezza e veicolarla ad un pubblico sempre più ampio». Il motivo? La ricerca di approvazione. «Non è patologica, è umana. Viene annoverata tra i bisogni secondari, insieme a quello di appartenenza ad un gruppo. Inevitabilmente la percezione che abbiamo di noi stessi è legata al feedback esterno. Questo è evidente soprattutto nei giovani adulti, ma la verità è che ciascuno di noi, ad ogni età, desidera sentirsi unico ed importante agli occhi degli altri. E in questo i social ci aiutano: i problemi sorgono quando l’immagine si sgretola e l’approvazione svanisce». Perché in rete ci sono i like, ma anche gli haters. «E poi c’è la realtà».

«I problemi sorgono
quando l’immagine si sgretola
e l’approvazione svanisce»

Il confine è sottile. Per alcuni sottilissimo. «Per i più giovani inesistente: i nativi digitali sono nati in un mondo misto, dove dimensione online e offline si compenetrano». In questo panorama è complesso determinare il limite tra uso, abuso e dipendenza. «Le dipendenze comportamentali o tecnologiche mostrano delle analogie con quelle da sostanze tanto sotto il profilo neurobiologico, quanto sotto quello psicologico, ma nelle prime il confine è più sfumato. Si configura una dipendenza quando la dimensione virtuale assume un aspetto totalizzante, a deperimento delle relazioni, del funzionamento sociale e lavorativo, con un impatto sostanziale sulla qualità della vita». Tra le principali spie spiccano «l’insonnia, la riduzione degli interessi quotidiani, una netta preferenza alle relazioni online rispetto a quelle in presenza».
Un po’ come se la vita fosse solo allo schermo. «Il lockdown ha favorito un incremento di tutte le dipendenze, in particolare di quelle tecnologiche, consolidando l’idea della dimensione online come rifugio o fuga dalla realtà». Una realtà nella quale – però – meritiamo di vivere. Vivere noi, davvero; non solo il riflesso di un’immagine ritoccata, filtrata, sfocata, in fondo sempre sbiadita.