cuore

N.33 Settembre 2022

IL RACCONTO

Regia di Mr. Cuore

Con gli occhi chiusi il mondo si spegneva per un po’.
Lentamente i suoi colori rinascevano, ricchi di nuova vita.
Il sole emanava un calore che trasmetteva tenerezza, mentre un vento tiepido sembrava accarezzargli il viso con soffio delicato e generoso.
Nella mano di suo fratello, brillava di luce riflessa una piccola biglia trasparente, prezioso trofeo di una memorabile partita giocata qualche giorno prima. Si vedeva che gli mancava un dente. Aveva un sorriso beffardo, il volto tutto sporco e un aspetto goffo e buffo. Era di solo un anno più grande di lui.
Stavano uno davanti all’altro, stretti in una dolce prova di forza, a misurare le proprie capacità e decidere chi tra loro fosse il dominante. Il terzo fratello, il più piccolo, prendeva le parti di uno o dell’altro a seconda di chi vedeva in vantaggio.
La voce limpida, che intonava melodie sognanti, apparteneva invece alla sorella maggiore Chiara. Si propagava, insieme al suo profumo fruttato, trasportata dal vento, portando pace e rassicurazione a tutti loro.
Disteso sul cornicione della terrazza, anche il gattino color nocciola, da poco aggiuntosi alla compagnia, sembrava gradire quel semplice e sincero pomeriggio assolato. Nel mentre affondava le unghie nei bastoni di legno, che reggevano i sottili fili consumati. Era lì che la madre stendeva i panni lavati.
In quel momento però erano ancora vuoti e segnavano un confine immaginario con il cielo, incorniciando quell’attimo di vita gioiosa come nel miglior quadro di un grande pittore.
Sei piani più sotto la testa del portinaio brillava lucida come non mai e com’era divertente, quando nessuno li controllava, improvvisare una corda con attaccata una piuma all’estremità e poi calarla giù per fargli solletico.
Lui cominciava ad agitarsi, borbottava, si insospettiva e infine, scoperto il trucchetto, urlava rabbioso, inveendo verso di loro.
«Maledetti furfantelli, lo dirò a vostro padre!»
Così il padre, di ritorno dalla lunga e faticosa giornata di lavoro, entrando in casa con faccia seria e incupita, li avrebbe chiamati a rapporto attorno al tavolo, tutti e quattro. Fissandoli con uno dei migliori sguardi severi mai interpretati, avrebbe creato un silenzioso stato di tensione. Poi, con tutto l’amore e la comprensione per la loro giovane età, sarebbe scoppiato a ridere, complice di quel momento di tentativi, di scoperte e di innocui divertimenti tipici dei bambini della loro età.
«Ma non fatelo più. Lo sapete che non è carino.» Avrebbe infine aggiunto mentre scompigliava loro i capelli, perso in un gesto affettuoso.
Con la figlia seduta sulle ginocchia e la moglie al fianco, avrebbe poi narrato i racconti della sua imprevedibile e mirabolante giornata.
Che gran dono la fantasia.

Realtà, dura realtà!

C’era un enorme palazzo in un piccolo quartiere della grande città. Ci viveva un’anima innocente, all’epoca accasata in un corpo di bambino.
I piani erano sei e l’ascensore a pagamento era a disposizione di quindici appartamenti. In totale il condominio ospitava ventisei adulti, sedici tra bambini e adolescenti, due cani e quattro gatti.
Nell’ultimo appartamento, al sesto piano, un bambino tratteneva un silenzio carico di emozioni amare.
Sulla guancia che un’ora prima accoglieva un sorriso d’eccitazione, ora restava solo la sensazione del freddo impatto del ferro. Il sapore di sangue era figlio di un labbro tagliato, gli occhi carichi di paura e nell’aria l’odore di zolfo che lui tanto odiava.
Con un polso era legato a quello che chiamava il “pozzo della sofferenza”. Un prezzo troppo amaro per un innocente.
Alle sue spalle, altri due respiri affannosi disturbavano l’inquietante silenzio. Il ticchettio prodotto dalle lacrime che dalle guance cadevano a terra, si confondeva con quello delle gocce in perdita dal termosifone e scandiva un tempo interminabile.
Lontano, un profumo di donna si percepiva appena. Nascosto, impotente, aggrappato ad un morbido collo di mamma.
Da sotto la sua veste una piccola adolescente apprendeva prematuramente l’arte della passività: subiva e taceva.
Per salvare il proprio volto doveva sacrificarne un altro.

Il racconto è tratto dal libro di RIccardo Cavaliere “Autobiografia di un sogno” (ed. Albatros)

Paolo era un figlio di mezzo, il secondo maschio, il terzo tra tutti, più grande quindi solo di Mario.
Non provava rabbia eccessiva come il fratello maggiore e nemmeno subiva con il grande dolore di quello minore. Viveva e pensava restando immobile, quasi volesse chiudere a chiave ogni emozione all’interno della sua piccola testa.
Era pronto.
Quando la porta si apriva entrava luce dal pianerottolo.
Si rifletteva sui capelli bianchi dell’uomo cattivo, resi gialli dall’eccessivo uso di brillantina. Una sola folata di aria pulita precedeva l’intenso tanfo di alcool e fumo. Si diffondeva fulmineo per tutto l’ingresso, trascinando a sé la paura e lo sconforto.

A quel punto “l’uomo nero” cominciava ad urlare e la donna a piangere, seguita dalla piccola che cercava maggior riparo sotto la sua veste.
Le urla colpivano i muri, gli schiaffi colpivano i volti e tutto ciò che non era visibile colpiva il cuore.

Per un piccolo scherzo al portiere di del palazzo era un prezzo troppo grande da pagare. Per questo, se doveva guardare, Paolo lo faceva con il cuore, tenendo gli occhi chiusi.