età
N.36 Dicembre 2022
Smartphone ai figli e giungla social: manuale per non lasciarli soli
Dialogo con Roberto Pellai sulle sfide e le minacce della rivoluzione tecnologica sulla crescita dei figli. Con un suggerimento preciso: niente cellulare fino ai 14 anni
Avere dei figli è come stare su un ottovolante: è bellissimo ma, certe volte, vorresti scendere. Inebriati o terrorizzati dalla velocità, disorientati o intrigati dai repentini cambi di direzione, i genitori sono accumunati dal desiderio di sapere se, nel percorso di crescita dei loro figli, ci saranno dei punti di riferimento a cui poter ancorare gesti e pratiche educative.
Alla ricerca di una risposta, abbiamo incontrato una persona che lo tsunami non solo l’ha già attraversato, ma che lo ha studiato in maniera approfondita. Qualcuno che, oltre ad essere medico, psicoterapeuta dell’età evolutiva e ricercatore presso il dipartimento di Scienze biomediche dell’Università degli Studi di Milano, è anche padre di quattro figli. Non è facile trovare una persona simile ad Alberto Pellai ma, quando lo si incontra, non la si dimentica. Ottimo comunicatore, competente e appassionato, è diventato, grazie ad una capillare e generosa azione divulgativa, un importante punto di riferimento per moltissime famiglie.
Partiamo dalle fondamenta: «Tra gli 0 e i 20 anni esistono delle fasi specifiche che non sono soggettive: c’è un aspetto oggettivo legato alle trasformazioni biologiche, cioè del corpo, e psicologiche, cioè della mente. Lo sviluppo che accompagna le età della vita ci rende man mano competenti a svolgere compiti specifici».
Ci può fare un esempio?
«Quando nasce, il bambino rimane in braccio ai genitori, poi inizia a gattonare, in seguito cammina, usa il triciclo per arrivare infine al giorno in cui inforca la bicicletta e pedala autonomamente. Di pari passo si sviluppa la sua capacità di gestire le funzioni di quello strumento che lo porta nella complessità del mondo».
Eccolo, il piccolo che sembrava da poco aver imparato a gattonare, trasformato, in pochi anni, in un ragazzino felice che, inforcata la propria mountain bike, sfreccia per le vie della città.
Sicuramente il traffico che preoccupa i genitori non è solo quello delle automobili ma, soprattutto, quello di internet. Pellai parte da una osservazione che, facilmente, è capitato di fare anche a noi: «Vediamo quotidianamente bambini di 4 o 5 anni smanettare sul cellulare della mamma, ma cosa stanno guardando?».A questo fondamentale argomento è dedicato il libro Vietato ai minori di 14 anni scritto insieme a Barbara Tamborini. Quali sono, in sintesi, le indicazioni che in questo campo fornite ai genitori?
«Il nostro consiglio è di dotare il proprio figlio di uno smartphone dopo la terza media. Ciò non significa bandire completamente la tecnologia fino a quell’età, ma accompagnarlo nella sua scoperta, fare in modo che in questo percorso il bambino sia sempre monitorato e guidato da una figura adulta. Come per la bicicletta, c’è bisogno di tempo e di passaggi graduali prima di arrivare ad un uso autonomo».
IL LIBRO
Un decalogo per i genitori
Smartphone e tablet
1. Non sono adatti ai loro bisogni
2. Riducono la probabilità di successo scolastico
3. Interferiscono con lo sviluppo della mente in età evolutiva
4. Impattano sullo stato di salute organica dei nostri figli
5. Riducono le competenze empatiche
6. Influiscono sulle reazioni emotive
7. Creano ansia e dipendenza
8. Generano diseducazione sessuale
9. Interferiscono con il bisogno di sonno
10. Non aumentano il senso di protezione e sicurezza
Ci aiuta a definire meglio i gradini di questo percorso?
«Certamente. Prima dei 3 anni tablet e cellulari sono da evitare. Poi, fino ai 6, gli schermi sono concessi per quello che si definisce edutainment (unione delle parole educazione e intrattenimento), diciamo tra i 60 e i 90 minuti al giorno dedicati ad un cartone animato o ad un programma specifico per la loro età. Tra i 6 e i 10 anni si inizia a familiarizzare con l’online, che diventerà poi specifico tra i 10 e i 14 anni».
Ci sono altri consigli?
«Sicuramente non accedere a profili social prima dei 13 anni, come specificato dalle stesse piattaforme, e fare attenzione, per quanto riguarda i videogiochi, alla classificazione PEGI che ci indica l’età raccomandata; per esempio non far giocare un bambino di 8 anni con un prodotto marchiato PEGI 13».
Se il rapporto con gli schermi, piccoli o grandi, è frequentemente oggetto delle preoccupazioni del mondo adulto, secondo lei c’è un argomento altrettanto scottante ma, contemporaneamente, meno al centro dell’attenzione?
«A mio parere la dimensione della socializzazione».
Anche in questo campo possiamo individuare delle fasi?
«Certamente. Tra tra i 3 e i 6 anni c’è una graduale preparazione ad un momento fondamentale: l’ingresso nella scuola primaria. Poi, dai 7 anni, c’è una socializzazione sotto il controllo dell’adulto. Attenzione, però: è importante che i bambini stiano insieme, in alcuni momenti della giornata, senza che l’obbiettivo sia quello dell’addestramento. Queste occasioni sono importanti per sviluppare fondamentali competenze prosociali e di gestione dei conflitti».
Dopo la primaria arriva la temuta “età dello tsunami”.
«Con la preadolescenza diventa molto attraente il gruppo degli amici, i ragazzi vogliono uscire dalla loro camera e buttarsi nel mondo».
Con tutto “l’inedito” che questo tuffo comporta.
«La socializzazione oggi è in crisi. Abbiamo sempre più adolescenti a cui, se diciamo di uscire, è come se li punissimo. È un ribaltamento rispetto a 30 anni fa in cui la punizione era proprio togliere la socializzazione».
Molti adolescenti di oggi non chiedono altro che rimanere chiusi nella propria camera: non c’è bisogno di scendere al parchetto perché i luoghi dove incontrare gli amici sono sempre di più on line. Non si fa comunità ma community, il social ha sostituito la socialità.
Ma non la famiglia, non la sfida quotidiana di educare al reale, di dare quelle regole che mancano nel mondo virtuale, e di condividere, sedendo insieme sul divano, ciò che accade ai nostri figli. Anche online.