soldi

N.06 Dicembre 2019

ECONOMIA

Se ci facciamo mantenere dai figli degli altri…

Intervista con l'economista cremonese Carlo Cottarelli che da piccolo spendeva la paghetta in figurine e oggi riconosce che la distanza tra vita e finanza è un'anomalia «Ma la povertà che mi spaventa di più (non da oggi) è la crisi della natalità»

Carlo Cottarelli

Professore, che significato dà lei alla parola “soldi”?

Dall’appartamento di Washington da cui risponde alla video-chiamata, la prima reazione che arriva da Carlo Cottarelli è una sonora risata. «Potrei cavarmela con qualche grande classico, come “i soldi non fanno la felicità… ma in fondo è meglio averne”».

Potrebbe. Ma siamo solo all’inizio…

«Dico che ci vuole il risparmio. Non mi piace lo spreco e non ho mai capito il consumismo, che peraltro non è un problema di oggi, ma ne parliamo dagli anni Sessanta. Il fatto è che viviamo in un mondo assurdo in cui ci affanniamo per avere cose che non servono».

Ad esempio?

«A che serve cambiare lo smartphone ogni due mesi. Poi certo, lo dico io che spendo tanto per l’Inter…».

E da ragazzo come spendeva le sue paghette?

«Fumetti. E figurine, c’erano album bellissimi. Non solo quelli dei calciatori, c’erano raccolte che insegnavano la storia e la geografia».

Allora si svuotavano le tasche dalle monetine risparmiate. Oggi il denaro è sempre più smaterializzato, questo cambia le cose.

«È così. Mia figlia ha 25 anni e non è mai entrata in una banca… Questo ha grosse implicazioni sull’industria bancaria, ma anche sulle nostre abitudini. Il pezzo di carta è diretto, adesso invece sembra di avere a che fare con i soldi del monopoli. È come una specie di gioco: spendi per accumulare punti per fare altra spesa… di cui non hai bisogno. Certo questo è possibile nelle società relativamente ricche».

«Non capisco il consumismo:
è assurdo affannarsi
per avere cose
che non ci servono»

Come la nostra?

«Noi come Paese ci siamo impoveriti, il reddito pro capite è sceso del 4-5%, ma questo non comporta cambiamenti radicali; dobbiamo solo stare un po’ più attenti a come spendiamo. Piuttosto ci siamo impoveriti di più in termini relativi, cioè rispetto agli altri Paesi della nostra zona».

Ma i soldi che usiamo per andare dal fornaio sono gli stessi che attraversano gli schermi dei terminali negli uffici dei finanzieri?

«Effettivamente la distanza tra la vita di tutti i giorni e la finanza è aumentata enormemente. Ad esempio gli stipendi nel settore finanziario sono cresciuti molto più rapidamente che negli altri settori. Certo, non c’è crescita senza settore finanziario, ma tutto questo sviluppo è anomalo».

Come lo spiega?

«Ad esempio la finanza è sotto-tassata. E questa è una distorsione. Non è una novità che ci siano gruppi di potere e lobby importanti che lavorano per questo».

Uno dei tanti capitoli della disuguaglianza: ricchi e poveri esistono da sempre, ma c’è un modo per evitare che la forbice si allarghi fino a rompersi?

«Lo strumento per correggere gli squilibri è sempre stata la tassazione. Oggi però nel mondo è più difficile perché i capitali sono molto più mobili, si muovono da un Paese all’altro, tra una e l’altra delle duecento amministrazioni fiscali differenti. Capisce che non ci sono regole che funzionano a livello globale. Dovrebbe esistere una World Tax Organization per coordinare meglio le politiche di tassazione. Spero che almeno in Europa ci si possa arrivare».

Se dovesse spostare una fetta di soldi pubblici, dove li investirebbe?

«Nella pubblica istruzione. È l’unico modo per garantire almeno l’uguaglianza nel punto di partenza, sapendo che poi all’arrivo non potrà esserci. Un dato allarmante arriva dagli Stati Uniti dove l’ascensore sociale funziona sempre meno (in Italia non so se abbia mai funzionato): questo significa che non tutti hanno le stesse possibilità».

«Investirei nell’istruzione:
è l’unico modo
per garantire a tutti
di partire alla pari»

C’è troppa economia nei parametri di giudizio sulla politica che guarda ai numeri, ma sembra non rispondere più a ragioni di tipo morale o culturale?

«Trovo esagerato dire che le lobby economiche guidano l’agenda politica. In fondo anche sulle priorità e le scale di valore ci sono conflitti interni all’establishment che ne conservano l’equilibrio. Piuttosto mi preoccupa il calo di partecipazione. Molte persone si disinteressano delle decisioni collettive che però alla fine sono fondamentali per la vita di ciascuno».

Quali sono le povertà che la spaventano di più?

«Se parliamo di valori il sintomo di una povertà crescente è la caduta del tasso di fertilità. Non succede da oggi, ma è un fenomeno che si è sviluppato tra gli anni Sessanta e la metà degli anni Ottanta, quando c’era una grande prospettiva di crescita. Da allora il dato sulla natalità è quasi invariato. In effetti penso a molti miei compagni di studi che hanno scelto di non avere figli. È un fatto culturale: pensi che senza figli avrai meno responsabilità e vivraimeglio. Poi però ti arrabbii se non ti pagano la pensione… Se non fai figli campi sul lavoro di quelli degli altri».

Ha parlato di responsabilità: c’è un mondo ricco che ne ha di più?

«Anzitutto diciamo che secondo la Banca Mondiale un miliardo di persone negli ultimi 20 anni sono uscite dalla soglia di povertà. Restano dentro ogni Paese delle differenze profonde, ma il calo della povertà in sé è positivo. Anche se va gestito, perché – ad esempio – il flusso migratorio dall’Africa all’Europa non è dovuto all’impoverimento del continente, ma al fatto che ci sono più dollari per pagarsi i viaggi. E questo genera tensione».

Che cosa è giusto che sia gratis?

(ride) «Anche quello che sembra gratis in realtà c’è qualcuno che lo paga. Noi, ad esempio, con le nostre tasse. Credo che il ruolo di uno Stato sia quello di garantire un punto di partenza equo per tutti. Ma credo anche che chi può permetterselo debba dare qualcosa in più. Pensi alle tasse universitarie: si parla di abolirle per tutti. E perché mai? Se una famiglia può permetterselo è giusto che paghi per un servizio. Così quelli essenziali, come la salute o l’istruzione potranno essere gratis per chi ha un reddito basso. Perché pagati dalla tassazione: da tutti noi».