nodi
N.10 Aprile 2020
Super rope solution, consumo che ingabbia
Il lemma “nodo” nel cinema rinvia immediatamente al celebre film di Alfred Hitchcock Nodo alla gola (The Rope) del 1948, un dramma psicologico incentrato su un banale omicidio perpetrato da due giovani ai danni di un amico. La corda, oggetto materiale del delitto, è anche il filo intricato di un processo di consapevolezza e di svelamento che si gioca all’interno di un appartamento, ripreso per tutta la durata del film, apparentemente senza stacchi della macchina da presa. Come sovente accade nei film del maestro britannico, un oggetto materiale si fa metafora di una forma filmica, in questo caso il più lungo piano-sequenza della storia del cinema (in realtà frutto di un sapiente montaggio di otto diversi blocchi) ma anche di un tema narrativo e un problema etico, ossia il groviglio di implicazioni e deduzioni che l’omicidio innesca e rivela, sciogliendo il “whodunit”.
La lezione di Hitchcock scorre sottotraccia tra gli amanti del cinema di generazioni diverse per affiorare – in forme e modalità disparate – anche a una distanza siderale. È il caso, tra gli altri, del corto d’animazione in CGI (computer generated imagery) The Super Rope Solution, realizzato nel 2011 da un giovane olandese, Auke de Vries, come saggio di fine anno dell’Accademia di Arte e Design St. Joost di Breda. La storia si svolge infatti tutta all’interno di un appartamento inserito in un anonimo complesso residenziale di una grande città, una massa grigia e informe di edifici spersonalizzanti che si assomigliano tutti. È in questo spazio claustrofobico che matura la nevrosi dell’individuo, qui rappresentata dall’unico protagonista, un uomo estremamente pigro intento a godersi una pausa di relax davanti alla televisione, che viene convinto dalla pubblicità a servirsi di un sistema di corde per poter soddisfare i bisogni primari (mangiare e bere, soprattutto) senza doversi alzare. L’iniziale benessere innesca nuove richieste che vengono soddisfatte con ritmo crescente fino alla conclusione dove si rovescia, in una chiave quasi parodistica, l’assunto hitchcockiano: se nel film del 1948 il senso narrativo conduceva allo scioglimento dei nodi, qui il percorso, opposto, porta a un immenso e inestricabile groviglio.
De Vries mette a punto le sue conoscenze di animazione digitale (dalla modellazione alla computer graphics, dal texturing alle animazioni e rendering dei personaggi 3D) per ricreare un ambiente vicino all’animazione classica, che ricorda i sapidi racconti di Bruno Bozzetto: una narrazione forte e sicura, un lavoro sui cromatismi che privilegiano i toni spenti, un uso di oggetti e situazioni al servizio di un punto di vista, anche morale, sulla storia. Insieme, la colonna sonora (di Tobias Borkert) memore del jazz di Henry Mancini per The Pink Panther, e la costruzione del protagonista il quale, fisicamente, ammicca all’Homer Simpson di Matt Groening, dalla testa molto sviluppata e dalla memorabile pigrizia, suggeriscono allo spettatore dei riferimenti cronologicamente più vicini ai giorni nostri.
E in questo gioco apparentemente nostalgico, tra la rievocazione del passato e un’attualizzazione da ricercare, si gioca non solo “la forma” (i VFX – visual effects – al servizio di uno stile di racconto tutto sommato tradizionale), ma anche il messaggio. La creazione e la soddisfazione dei bisogni dell’uomo moderno è qui indotta dallo schermo televisivo, come insegnava la letteratura sociologica tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta (dai Persuasori occulti di Vance Packard agli Apocalittici e integrati di Umberto Eco). Ma alcuni particolari – ad esempio il telefono portatile – suggeriscono anche una diversa collocazione temporale, più vicina all’attualità. I nodi e gli inghippi non possono allora che ricondurci alla rete per eccellenza, a quell’internet – indispensabile e problematica allo stesso tempo – la quale rappresenta la vera super rope solution dei giorni nostri.