tempo

N.22 Giugno/Luglio 2021

RUBRICA

Sfida in immagini all’attimo che fugge

Cinema e fotografia in cerca di una dimensione dentro l'epoca delle serie tv che abitano lunghe stagioni e degli scatti da social che colpiscono come un flash

N. Nixon, Portraits of the Brown Sisters (Youtube)

Avere tempo. Non avere tempo. Perdere tempo. Prendere tempo. Passatempo.
Mai come oggi l’indigestione di serialità televisiva ci ha resi consapevoli della logica temporale degli audiovisivi. Non si tratta solo delle stagioni che – complici le incertezze di quelle meteorologiche – ci siamo abituati a designare con l’aggettivazione ordinale (la terza stagione di Breaking Bad, la quinta de I Soprano): il tempo agisce profondamente sulla nostra esperienza di visione e la condiziona. Le serie lavorano proprio sul modo in cui la psicologia umana vive ed elabora la percezione del tempo. In alcuni casi accompagnano lunghi periodi della nostra vita, come Doctor Who, una serie di fantascienza della BBC prodotta dal 1963 per 26 stagioni, poi ripresa dal 2005 e tutt’ora in corso, oppure I Simpson, che dal 1987 raccontano, parodiandola, la vita e la cultura soprattutto americana, o ancora Un posto al sole, la sitcom italiana che ha oltrepassato i vent’anni di vita. In altri, soprattutto nel caso della programmazione daily, il tempo del calendario si riflette specularmente in quello schermico, come nella seguitissima Il Paradiso delle signore, ambientata nella Milano dei primi anni ’60, in un’immaginaria condivisione di cronologie (il Natale, il primo maggio, ecc.). Tutte le serie, poi, giocano sulla fidelizzazione e sull’aspettativa del pubblico, dosando attentamente le informazioni sulla messa in onda o sui cambiamenti tra le varie stagioni per creare curiosità e attesa. Come ben raccontano i saggi compresi nel libro Tempo di serie. La temporalità nella narrazione seriale (Unicopli, 2018, a cura di Fabio Cleto e Francesca Pasquali), la logica temporale riguarda sia l’ambito produttivo e distributivo, sia quello narrativo.
Ma, mentre i cicli dilatati della serialità riconsegnano allo spettatore quel tempo lento e familiare dei romanzi d’appendice di fine Ottocento, altri media fanno leva – al contrario – sull’immediatezza e l’istantaneità, sulla contrazione temporale. È il caso della fotografia, ma anche dei video pubblicati sui social network: un’occhiata è sufficiente a “scrollare” decine di foto su instagram, così come tik tok ospita video che si esauriscono in meno di un minuto.
Naturalmente non è sempre stato così: la storia della fotografia e quella del cinema restituiscono una vicenda complessa, fatta in primo luogo di vincoli imposti dallo statuto ancora imperfetto delle macchine. Si pensi ai lunghi tempi di esposizione dei soggetti nelle prime fotografie; oppure ai filmati Lumière, la cui brevità era condizionata dalla lunghezza delle bobine. La rappresentazione del tempo nella fotografia e nel cinema ha poi assecondato finalità estetiche: gli esempi del fotodinamismo di Bragaglia da un lato, e del ralenti o del fermo fotogramma dall’altro, due “stati alterati dell’immagine” secondo la definizione di Antonio Costa, sono solo indicativi di una molteplicità di modi in cui il problema del tempo ha preso forma nei linguaggi visivi e audiovisivi.
In questo vastissimo e multiforme territorio, vorrei mettere a fuoco solo una delle direzioni possibili: quella in cui la logica temporale della singolarità e unicità – tipica di cinema e fotografia – accoglie quella plurale e ciclica della serie. Come è possibile fare dello scatto fotografico un dispositivo di continuità? Se lo è chiesto, tra gli altri, il fotografo Nicholas Nixon, celebre per le sue fotografie di paesaggi e per i ritratti di grande formato. A metà degli anni Settanta ha messo in posa la moglie Bebe, di 25 anni, e le sue tre sorelle: Heather (23), Mimi (15) e Laurie (21), riprendendole in mezza figura mentre guardano in modo neutro, quasi distratto, verso l’obiettivo.
Da allora, si è dato il compito di tornare a fotografare le quattro sorelle Brown ogni anno, riprendendole sempre nella stessa posizione. La serie, ininterrotta per 46 anni (nel 2020 le sorelle hanno posato “distanziate”, a causa della pandemia), documenta il lavoro del tempo sui visi e sui corpi delle donne, mantenendo inalterato (e familiare per chi guarda) il senso del loro legame.
Una strada non dissimile, in campo cinematografico, è quella percorsa da Richard Linklater nel 2014 con il film Boyhood, in cui racconta la crescita di due fratelli lungo 12 anni di vita. Affidandosi a una sceneggiatura tenue, che rifugge dagli stereotipi delle “prime volte” e privilegia gli aspetti più quotidiani e ordinari della vita, come le fatiche e gli errori (di genitori e figli), la pellicola accompagna in una sorta di nuovo, antiretorico racconto di formazione, Mason (Ellar Coltrane) e la sorella Samantha (Lorelei Linklater) dagli anni dell’asilo a quelli dell’università.

Ciò che contraddistingue il film, girato in pellicola, è la durata della sua realizzazione che si è protratta per 12 anni. Ogni anno, dal 2002 al 2013, il regista ha raccolto la troupe e il cast per qualche giorno, al fine di girare nuove scene. «È stato come fare un grande atto di fede verso il futuro – ha affermato Linklater – inevitabilmente ci sarebbero stati cambiamenti fisici ed emotivi. Ero sempre attento a rimanere fedele all’idea originale del progetto e alla realtà dei cambiamenti che avrebbero subìto gli attori lungo la strada. Il film è il frutto di una collaborazione con il tempo; e il tempo stesso a sua volta può diventare un ottimo collaboratore, sebbene non sempre prevedibile».
Viene in mente, in una sorta di sintesi tra cinema e fotografia, la sequenza de La grande bellezza (di Paolo Sorrentino, 2013), in cui Jep Gambardella passa in rassegna, stupito e quasi commosso, l’installazione con le migliaia di autoritratti che l’artista Ron Sweet ha realizzato (una sorta di alter ego di Roman Opalka, un pittore che ha scattato per quarant’anni quotidianamente dagli autoritratti fotografici dopo ogni sessione di lavoro).

Ma tutto il film gioca sui ricami del tempo, con contrapposizioni anche violente tra permanenze del passato e manifestazioni effimere del presente.
Gli esempi potrebbero continuare, perché la ricerca di una dilatazione dell’istante è ripetutamente inscritta nelle arti del tempo, come la fotografia e il cinema. Non è un caso che il critico e teorico André Bazin, molti anni fa, abbia definito icasticamente la settima arte come «la mummia del cambiamento».