aria
N.39 Marzo 2023
L’aria serena… di Pozzolengo
Dall'Aria serena dell'Ovest con cui Silvio Soldini ha raccontato il vuoto grigio della metropoli allo sguardo grato di Franco Pavioli, dalla sua campagna nel basso Garda, ha saputo cogliere attraverso il cinema il primo soffio di vento che sa dare forma e colore all'atmosfera della pianura Padana
Alla sua uscita nel 1989, il primo lungometraggio di Silvio Soldini aveva fatto parlare la critica di una rinascita del cinema italiano per la capacità di intercettare, con perfetto tempismo, le condizioni di vita di un gruppo di persone in precario equilibrio personale e generazionale tra i fatti di Tien An Men e la caduta del muro di Berlino.
L’aria serena dell’Ovest, questo il titolo del film di Soldini, allude a un contesto milanese solo in apparenza sereno, colto alla vigilia di un decennio destinato a cambiare per sempre le sorti del mondo e di Milano. Il regista sceglie la via della sottrazione: non mostra apertamente ma lascia intuire, evita di presentare cartoline sulla Milano da bere, ma offre un ritratto nuovo e inusuale della città, rivelandone scorci singolari e “vuoti” (di senso, di spazi e di tempo) per lasciare che lo spettatore si attivi per dare loro senso. Così anche i fatti di cronaca che agitano l’Europa e il mondo non sono mostrati ma allusi solo indirettamente.
Nel film l’aria diviene una metafora della condizione politica e sociale, con inevitabili ripercussioni sul piano individuale. Mentre da Est si preannunciano minacciosi temporali, l’”aria serena” (o dovremmo dire inquinata) di Milano e dell’Europa non potrà più rimanere tale a lungo, proprio per la capacità dei corpi gassosi di espandersi in tutte le direzioni e di riempire tutti gli spazi. In altre parole, Soldini fa intuire che, in un mondo globalizzato, ogni perturbazione ha dei contraccolpi sul resto dell’atmosfera.
Franco Pavioli, “Al primo soffio di vento” (film completo) / LINK
Se il regista milanese sceglie la via della metafora per raccontare l’aria del tempo, bisogna riconoscere che non è facile per il cinema, spesso limitato dalla piatta bidimensionalità delle immagini, restituire l’impalpabilità dell’aria: è nell’attenta restituzione di atmosfere ben connotate che lo schermo fa “respirare” allo spettatore lo spirito delle stagioni e dei luoghi.
Viene subito alla mente, per l’ambientazione spazio-temporale vicina (siamo a Crema nel 1983) il film di Luca Guadagnino Chiamami col tuo nome. Lo spettatore viene immerso nel clima afoso di una calda estate di campagna dove l’inesausto frinire di cicale, gli echi delle voci che si intrufolano tra le finestre aperte di vecchie case, la mollezza di ore che scorrono minuto dopo minuto alla ricerca di un atteso refrigerio, trasportano la ricerca dell’aria su un piano estetico, in cui Guadagnino fa gustare allo spettatore la bellezza languida di un’estate nella pianura padana.
Luca Guadagnino, “Chiamami col tuo nome. (trailer e clip) / fonte: Youtube
Ma il regista che più di ogni altro riesce a distillare l’atmosfera padana, scarnificando la narrazione fino a ridurla alle sue componenti essenziali, quasi materiche, è indubbiamente Franco Piavoli, maestro artigiano dell’arte cinematografica. A lui, che ha al suo attivo solo quattro lungometraggi, prodotti autonomamente con cadenze settennali, e che vive appartato a Pozzolengo – un comune a sud del lago di Garda che si affaccia come un anfiteatro aperto sul lago, tra prati e vigneti –, si deve un modo altro di fare cinema, rispettoso dei tempi e delle cose; un’arte di osservazione e di ascolto minuto di momenti e di esseri viventi che sembrano transitare direttamente, senza mediazioni, dall’occhio del regista allo schermo. Eppure, nel cinema di Piavoli, niente è più studiato, oserei dire metabolizzato, per essere restituito a un’essenza che ha matrici classiche.
È ciò che accade in Nostos, il ritorno, incentrato sul viaggio di un eroe verso casa, al termine di una guerra difficile, combattuto tra pensieri di vita e di morte, di nostalgia e amore: una vicenda individuale ma proiettata su un piano universale. Oppure ne Il pianeta azzurro, lungometraggio di esordio, in cui la trasformazione del paesaggio naturale segue il ciclo della vita e delle stagioni, così come la vita dell’uomo, con le sue fasi vitali, gioiose, e quelle della fatica e del dolore.
In Al primo soffio di vento, la matrice classica è quella di Apollonio Rodio, da cui è tratto il titolo che riprende alcuni versi delle Argonautiche pronunciati dalla madre di famiglia sul tema dell’innamoramento. Forse riferite alla figlia, una ragazzina dai capelli rossi che attraversa una natura rigogliosa tra i girasoli, nei campi e accanto al fiume, «come una ninfa assediata dai giovani centauri», che sente dentro di sé il richiamo alla vita. O forse anche ai giovani lavoranti di origine africana giunti per la mietitura che alla sera, quando gli anziani riflettono sul crepuscolo della vita, festeggiano la loro giovinezza. Il rispetto rigoroso dell’unità di tempo (ma anche delle altre unità classiche di luogo e di azione) si riverbera nella musica di Satie, suonata al piano dalla ragazza, che si lega ai vissuti e alle emozioni di ciascuno dei personaggi, e agli elementi stessi della natura, producendo risonanze differenti.
È lo stesso Piavoli, nell’intervista che accompagna il dvd, a spiegare l’origine della sua poetica, e il modo in cui guardare il film: «Anche per un film c’è sempre il primo soffio di vento, nel senso che è il momento dell’innamoramento, il momento dell’amore nascente, il momento in cui si esce da una forma di stasi, di incapacità espressiva […] Quasi sempre, questo primo soffio di vento nasce da un’immagine, una visione semplicissima magari di un cielo che sta trascolorando, oppure di un fiume che sta scorrendo, o generando dei suoni diversi a seconda, appunto, della velocità con cui scorre. E così anche il frinire delle fronde, delle foglie di un albero, in trasparenza di controluce oppure illuminate di taglio, e anch’esse muoversi in modo molto lieve o in modo agitato, appunto, a seconda delle correnti e del vento che si viene a generare in quel momento. Anche gli alberi hanno un’anima. Anemos è appunto il vento».
Franco Pavioli, “Al primo soffio di vento” (film completo) / LINK
È impossibile, dopo aver visto questo film, tornare alla realtà atmosferica o sensoriale senza provare il bisogno di esprimere un canto interiore di riconoscenza per il dono della vita e per le sue infinite meraviglie, potenziate dall’immagine cinematografica. Come aggiunge Franco Piavoli, «muovendomi tra questi paesaggi, respiro tutto l’incanto, tutta la bellezza in tutti i momenti del giorno». È l’aria serena di Pozzolengo, quella di cui tutti i suoi spettatori gli sono immensamente grati.