pace
N.45 Dicembre 2023
Il sussurro degli amanti silenziosi
Il quartiere dove vivevo era piuttosto trafficato. Almeno per quelli che potevano essere i ritmi della mia città. Una zona “buona”, per così dire, di quelle dove le persone vivevano ingrassando e riempiendo le case di oggetti talvolta inutili o superflui. Un via vai continuo: di macchine dirette al lavoro, di autobus, di macchinari per la pulizia delle strade, di scolaresche, di biciclette, di camioncini dell’acqua e, al mercoledì e di sabato, di furgoni dei venditori ambulanti, diretti alla piazza per il mercato. Per non parlare dei giorni festivi, pieni di turisti a inondare i giardini, pronti per raggiungere l’ennesima attrazione, depredare i banchetti, ingozzarsi delle prelibatezze locali, come formiche alla ricerca dell’essenziale, ma in fila indiana verso una via di non ritorno.
Sono sempre stato un osservatore silenzioso, curioso come un gatto attratto da un luccichio sul muro, dietro ad un divano verde. Mi fermavo ad ascoltare, a rubare le espressioni, le movenze, i gesti naturali di un quotidiano incontro con l’artefatta realtà che l’uomo era riuscito pregevolmente a creare, mattone dopo mattone.
Poi c’erano loro. Li vedevo quasi ogni giorno, come fosse un rito, una tradizione che si ripete per qualche illogico motivo. Ai lati estremi della piazza: lui alto, nel pieno della bellezza, maestoso; lei più esile, delicata, armoniosa. Si distinguevano da tutto quel “resto” omologato, standardizzato, ripetitivo. Spezzavano la monotonia della mia vista, come una nuvola interrompe un cielo azzurro estivo con il suo ipnotico volo. Mi domandavo spesso come facessero a non amarsi, nonostante fossero sempre così lontani, quasi estranei.
Mi domandavo
come facessero
a non amarsi
Eppure, loro non sembravano scontati. Il tempo li faceva variare, talvolta li rendeva più freddi e distaccati, in altri giorni trasmettevano un calore consolatorio e sembravano diminuire i passi che li separavano l’uno dall’altra. Una volta mi parve quasi di vederli sfiorarsi, ma in tutto quel caos, in quella frenesia, quell’attimo si perse dietro ad altre inutilità, come sempre sulla lista delle mie ripetute distrazioni.
Le finestre dell’appartamento dove vivevo si affacciavano proprio su quella piazza di cemento grigio. Certi giorni li vedevo anche da lassù e, se appena appena avevo tempo, mi fermavo a spiarli in silenzio, sperando di veder sbocciare quell’amore che seguiva i sogni della mia immaginazione.
Non ero un guardone, ma no, suvvia! Ero solo una persona emotiva, una varietà sofferente in quei tempi freddi e cupi, una specie in via di estinzione. Ma questa storia non riguarda me, riguarda loro e tutto ciò che mi capitò di osservare e che, di tanto in tanto, urtava e contrastava le fragili corde del mio animo sognante.
Le persone di quei tempi avevano smesso di fare attenzione a concetti come il rispetto, la gratitudine, la gentilezza. Si stavano tutti perdendo in pensieri assenti, in sguardi rivolti verso schermi vuoti, intenti a toccare sottili pannelli di vetro ricchi di immagini fuorvianti, di esche succulente pronte per essere abboccate.
Un giorno vidi un ragazzo passare vicino a lei e, quasi come se non esistesse, lanciarle praticamente addosso la carta di un kebab, piena di unto, rimasugli e salse grasse. Lei restò lì dov’era a guardarlo passare, con una tristezza facile da cogliere, ma una fermezza difficile da imitare.
Lei restò lì dov’era a guardarlo passare,
con una tristezza facile da cogliere,
ma una fermezza difficile da imitare
Mi adirai. Aprii la finestra ed inveii contro il ragazzo, invitandolo a raccogliere e a buttare la carta. Lui mi mostrò il dito medio. Lei ed io ci guardammo e nel suo silenzio, compresi la sua risposta. Chiusi la finestra dietro ai miei occhi sofferenti, tornai a distrarmi non prima di voltarmi verso di lui, che anche quel giorno era lì, anch’egli immerso in un silenzio di una superiorità disarmante.
Mi fecero sentire compreso e allo stesso tempo piccolo: avrei voluto avere la forza di quel silenzio, ma ero sempre stato un fiume dalle correnti turbolente, che straripava con la piena e rientrava poi lentamente nel suo corso, solo una volta sfogate le trattenute emozioni.
Continuavo a chiedermi come potessero non amarsi.
Poi un giorno il mondo si ammalò. Beh, a dire il vero era già malato da tempo. Dico erroneamente mondo, sottintendendo il genere umano. Sempre così di corsa, distratto, irrispettoso, invadente, superbo. Era inevitabile una fine tale, considerati i presupposti degli ultimi secoli di storia. Comunque, si ammalò gravemente e iniziò a morire.
Lentamente il mio quartiere cominciò a divenire meno frequentato, scandito da un ritmo sempre più lento e meno affannoso. Per primi scomparvero turisti e banchetti, seguiti a ruota da mercati e sabati di piazza. Poi toccò alle scolaresche, ai lavoratori, alle biciclette e alle macchine. Alla fine, non restò più nessuno da osservare, solo mazzi di solitudine rinchiusi in casa dalla paura e dalla svanita convinzione di poter governare tutto.
Mi ammalai anche io, ma riuscii a resistere a lungo, perché nel tempo avevo imparato a respirare piano, ad inalare una quantità ridotta di quel veleno che contaminava l’aria e meno di tutta quella tossicità che aveva consumato persona dopo persona.
Un giorno mi sentii molto stanco. Decisi che avevo vissuto abbastanza e che non c’era più nulla da osservare o da ascoltare, nemmeno per uno attento e ricettivo come me. Mi diressi verso la finestra del salotto e la spalancai. Osservai il cielo, di un color ciano che non ricordavo di aver mai visto. Poi guardai la piazza, sempre uguale: fredda, piena di cemento e di bugie seppellite.
Restai di stucco davanti a quell’ultimo capolavoro.
Nella morte che ci aveva invaso, il loro amore era finalmente sbocciato. Si toccavano come si toccano due amanti quando si dimenticano del mondo intorno a loro. Uno davanti all’altra, da sempre, in un silenzio assordante, in un tempo indefinito. Ora potevano vivere la loro passione.
Dicono che le piante si amino di notte e che solo nel silenzio di quegli attimi riescano a sussurrarsi il loro amore. Loro, quelle piante, beh, si erano sempre amate, solo che io non avevo mai avuto il privilegio di ascoltare.
E mentre osservavo l’ultimo dipinto della mia vita e le lacrime attenuavano la secchezza dei miei occhi, consumati e stanchi, decisi che potevo andare, celebrando un matrimonio nel quale avevo sempre sperato e sentendomi un intruso fortunato, perché avevo condiviso la debolezza umana, ma almeno il buio dei miei tempi non mi aveva accecato.
Cielo azzurro, alberi in fiore.
Silenzio. Pace.