cibo
N.15 Novembre 2020
Cronache culinarie: tra Congo, Burundi e… un bar di Milano
Osservazioni gastronomiche raccolte in 16 anni di Africa, tra diete "mediterranee" e formiche al peperoncino
«Verrei a trovarti in Burundi, ma là, cosa posso mangiare?». Ricordo questa frase di Myriam, allora una nipotina. Un problema simile – cosa si mangia in Africa? – se l’era posto anche Enzo Ziviani, che era stato amministratore delegato della Riello e che conosceva bene Giappone e Stati Uniti, ma che, per il suo primo viaggio in Burundi, si era messo in valigia 30 scatolette di tonno.
Dopo 16 anni passati tra Burundi e Congo, non saprei raccontare cosa mangiano gli africani. Potrei solo dire cosa mangiano gli europei quando sono in Africa. A Myriam avevo raccontato che, verso le 10 del mattino, il cuciniere veniva a chiederti cosa poteva preparare per il pranzo. Io ero il logista della casa dei volontari, per cui decidevo senza troppe consultazioni. Primo menù: spaghetti, patate, pomodori, cotolette di carne, macedonia. Secondo menù: gnocchi di patate, pomodori, verza, macedonia. Poche variazioni, sono sempre stato un sostenitore della dieta mediterranea, ovvero di mangiare quello che mi piaceva. Quando ero via, la comunità ne approfittava per disintossicarsi dai carboidrati e mangiava cibo locale: riso, banane e fagioli e sombe, una verdura cotta. Ma dopo un paio di giorni ritornavo e si ricominciava con pasta e carne.
Il cuoco era bravissimo. Preparava il pane in casa, appena sfornato era spettacolare. Si mangiava in terrazza, su un tavolo da ping pong da 10-12 posti. Una volta avevo confrontato la location con quella di un bar di Milano, dove mi avevano accompagnato Gigi Torresani e gli assistenti della Cattolica dopo una conferenza sul tema di un progetto sportivo in Africa. In quel bar si era più stretti che sul sedile di un aereo. E si mangiava meno bene…
Fuori dall’ospedale, sui gradini o in un angolo, i familiari dei ricoverati mangiavano in gruppo da una pentola piena di banane e fagioli, con un cucchiaio a testa. Mangiavano a tutti gli orari, non si capiva bene se quello fosse l’unico pasto della giornata. Nei bar che affiancavano l’ospedale, la gente più che mangiare, beveva. Alcuni tentativi per aprire una mensa per i lavoratori dell’ospedale erano falliti proprio per questa abitudine. Era riuscito, invece, il progetto per offrire un pasto caldo ai bambini aiutati per andare a scuola. Va avanti ancora oggi, dopo più di 20 anni. Si era arrivati anche ad una valutazione proteica: una volta la settimana veniva preparata della carne. Una cooperativa di donne si era impegnata nel progetto, ma la mensa funzionava solo per gli scolari. Gli altri dicevano che era troppo cara.
In Burundi, avevamo un grande orto. Serviva, più che altro, a garantire un piccolo stipendio anche al giardiniere. Una volta, Egide, che era il figlio del giardiniere Dominique, era venuto a dirci: «Mio papà, lasciatelo pure a casa. Tanto, quando prende lo stipendio sta fuori due giorni e due notti e quando rientra non ha più niente…». Al che avevamo dovuto cercare di convincere Dominique che lo stipendio poteva essere utile anche alla sua famiglia. Era d’accordo a metà, perché sosteneva: alla fine, chi lavora?
Nel Kasai orientale, provincia del Congo da dove sono rientrato nel settembre 2018, sono invece sicuro che la gente mangiasse una sola volta al giorno. I padri saveriani sostenevano che, fuori dalla città di Mbuji Mayi, ci si cibasse solo 4-5 volte la settimana. Il piatto principale era la polenta, con farina di mais allungata con farina di manioca per aumentarnee il volume. Io ordinavo quella con solo farina di mais che era chiamata 4×4 come le auto a trazione integrale.
Invitare qualcuno a pranzo o a cena non faceva differenza sull’orario: si cominciava a mangiare alle 3 del pomeriggio. Noi volontari, peraltro, non avevamo necessità di adattarci e mangiavamo a colazione, a pranzo e a cena, trovando anche sempre qualche ragione per lamentarci. Se avanzava un pane lo davamo al figlio della cuoca che passava prima di andare a scuola. Lo prendeva, ma la sua abitudine era di stare a digiuno fino al pomeriggio inoltrato.
Potrei fermarmi qua. Chi mangia una sola volta al giorno, non ha bisogno delle mie osservazioni culinarie.
Racconto quindi solo agli italiani, quel che ho mangiato, ho sentito o ho visto mangiare in 16 anni di Africa. La premessa è che ho sempre mangiato bene, con una particolare predilezione per gli gnocchi. Ho mangiato una nutria in umido, senza averla ordinata perché eravamo ospiti e l’ho trovata solo un po’ dura come carne. A mia ulteriore colpa, posso aggiungere che, una volta che mi hanno spiegato cos’era, ho terminato il piatto. Ho visto un topo infilato come uno spiedino dai poliziotti congolesi in servizio davanti a casa nostra. Ho azzardato una protesta perché c’era qualche insetto negli spaghetti ad una festa, ma non ho avuto ascolto anche perché ce l’avevano messo apposta per arricchire il condimento. Ho visto mangiare un piatto di formiche rosse al peperoncino come antipasto e rimandarle in cucina per terminare la cottura.
In Congo, dopo una visita al mercato, avevo preteso di sentirmi dire: «Siamo così poveri che mangiamo anche i topi….». Invece, il sacerdote, mi aveva spiegato che non era ancora la stagione giusta per comprarli.