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N.15 Novembre 2020

STORIE

«Sono andata a far la mondina…». Nell’album dei ricordi di Maria

Maria ha 90 anni ed è ospite della Fondazione Sospiro Il suo racconto riporta in luce una antica tradizione che lega le nostre campagne alle risaie del pavese

Se potessi avere mille lire al mese... è una canzone del 1939, portata in tutte le case da Gilberto Mazzi. Mille lire per 40 giorni, nel 1946, era il compenso delle mondine che lavoravano anche 12 ore al giorno, sabato e domenica compresi. «Domenica era però mezza giornata» ricorda ancora oggi Maria Piccioni Antelmi che ha svolto questo lavoro nei primi anni del Dopoguerra.
A 90 anni, resta lucidissima ed è ospite della Fondazione Sospiro. «Il 17 dicembre saranno 2 anni che mi trovo qua – spiega – io mi sentirei anche di ritornare nella mia casa di Cicognolo, ma adesso c’è il virus ed è meglio aspettare ancora un po’ di tempo».
Di quelle domeniche al lavoro, la Maria ricorda anche il panino con la carne o con il salame alle 9 del mattino per la colazione e qualche volta la minestra di brodo di carne conservata anche per il lunedì.
«Sono andata a fare la mondina che avevo 15 anni – ricorda – con una quarantina di ragazze di Sesto Cremonese. Io abitavo a Luignano e mi avevano scelto, nella lunga lista, perché facevo parte di una famiglia numerosa. Ero nata a Cicognolo e vi sono tornata a 22 anni, appena sposata, ma da piccola la mia famiglia si era trasferita a Luignano perché il padrone aveva offerto un posto da mandriano al mio papà. Lui era un bergamino, ma era stato mutilato di un dito e non poteva continuare a mungere le vacche».

C’era un’altra canzone, all’epoca, paragonabile con quella delle Mille lire al mese. Ed era: Sciur padrun de le beli braghe bianche, una canzone popolare piemontese-lombarda che i linguisti hanno definito una sorta di esperanto dei dialetti del Nord. Aveva origini nel 1800, era un canto di rivendicazione delle mondine che iniziavano a intonare dopo 20 giorni di lavoro, quando ne mancavano altrettanti alla fine. E la cantavano con sempre più forza quando il tempo s’accorciava e “non va più a mese e neppure a settimane, la va a poche ore…”. Fu cantata per prima da Giovanna Daffini, che aveva davvero fatto la mondina, poi da Gigliola Cinquetti, Anna Identici e dal Gruppo Padano di Piadena (alla fine dell’articolo, dovrò ricordarmi di ringraziare Wikipedia per la collaborazione).
«Sciur padrun la cantavamo anche noi – ricorda Maria – ma non nel primo anno a Candia Lomellina perché il padrone non voleva sentire dei canti. Andava avanti e indietro e stava attentissimo a quelle che erano in coda e le spronava a muoversi. Invece, negli anni successivi siamo andate nelle risaie di Gropello Cairoli e là abbiamo trovato dei padroni abbastanza bravi. Almeno, ci lasciavano cantare…».
«La giornata di lavoro cominciava presto – continua – lasciavamo la casa alle 5 e alle 5 e mezza avevamo già i piedi in acqua. Era freddissima, soprattutto i primi giorni. Poi, verso le 8, la temperatura diventava accettabile. Un anno avevo la febbre prima della partenza e il medico di Luignano mi aveva suggerito di restare a casa. Io volevo andare e mi sono detta: si torna comunque per le elezioni, semmai dopo resterò a casa. Invece l’acqua fredda delle risaie mi fece bene e guarii dalla febbre…».
«Alle 9 – ricorda ancora Maria – c’era il momento della colazione. Un panino con dell’acqua, niente di più, ma era già d’aiuto. La domenica il panino era con la carne o con il salame. Si lavorava fino a mezzogiorno, poi c’erano due ore di riposo. La sera si finiva verso le 5 e mezza, ma di solito si doveva terminare il campo da trapiantare o da mondare. Ricordo che fino alla festa di san Pietro si trapiantava il riso, dopo dicevano che non avrebbe più attecchito per cui iniziavamo a togliere le erbe. Ma a quel punto, eravamo già quasi alla fine del lavoro».

Lasciavamo la casa alle 5
e alle 5 e mezza
avevamo già i piedi in acqua

Lo stipendio era di mille lire per tutto il periodo?
«Sì, l’ultimo anno era di 1.050, ricordo. In più oltre le 10 ore, ci pagavano 2 ore di straordinario. La domenica ci faceva sempre visita una signorina, che faceva parte del sindacato e ci chiedeva come stava andando il lavoro. Poi ci davano un chilo di riso per ogni giorno lavorato. Tornavamo quindi a casa, sulle tradotte, con un sacco di 40 chili. E queste tradotte si fermavano sempre lontano dalla stazione centrale…».

Come eravate alloggiate?
«Da casa ci portavamo una federa che poi riempivamo di paglia. Ricordo di aver dormito per terra il primo anno, poi abbiamo sempre trovato della brandine. Il cibo non era granchè, per questo ricordo quando, al lunedì, restava ancora un po’ del brodo di carne della domenica».

Si è mai innamorata di un bel ragazzo pavese? «No, no, no. Da casa mi avevano detto di non partecipare alle feste che, ogni tanto, la domenica, si tenevano nelle cascine. Non mi avevano dato il permesso di ballare».
Però custodisce con nostalgia una vecchia foto: l’aia, il gruppo delle mondine e una fisarmonica.