domani

N.07 Gennaio 2020

NASCITE

Qui ostetricia: cronache dal giorno zero

Il reparto al settimo piano dell'ospedale di Cremona ci ha aperto le porte delle stanze dove inizia la vita dove mamme, papà e bambini iniziano il loro cammino insieme

La giornata inizia con due cesarei programmati. «Il resto non si può prevedere» sorride Martina, una delle ostetriche di turno, mentre registra i dati dell’ultimo nato.
Il settimo piano dell’Ospedale di Cremona è un luogo che accoglie: le mamme coraggiose, i mariti impacciati, i loro bimbi che vengono al mondo in modo tradizionale, in acqua, con la partoanalgesia, in posizioni alternative, qualche volta in sala operatoria. «Qui aiutiamo le donne a partorire nel modo in cui se lo sono immaginato… Anche perché purtroppo sappiamo che spesso è l’unica volta in cui capiterà nella loro vita» spiega dolcemente il dottor Aldo Riccardi, direttore dell’Unità operativa di Ostetricia e ginecologia e del dipartimento materno infantile dell’Asst. «Certo, suggeriamo il parto naturale come migliore opzione, ma non imponiamo né consigliamo subdolamente nulla. Sappiamo che le mamme tengono alla salute loro e dei loro piccoli più di chiunque altro. A noi spetta accompagnarle informandole e rispettando la loro libertà».
Anche noi veniamo accolti con il sorriso. La capo ostetrica Paola Parma ci precede tra le stanze delle mamme chiedendo chi sia disponibile a concedere due parole e uno scatto di questi momenti. I corridoi sono silenziosi: «E oggi è una giornata particolarmente movimentata» assicura Paola. Ma tutto è organizzato per avvolgere nella serenità l’attesa e il riposo.
In sala d’attesa tre ragazze con belle pance tonde aspettano la visita dal ginecologo accompagnate dalle mamme. Un’altra, davanti all’ascensore con il compagno, non trattiene l’entusiasmo al telefono: «È femmina, ce l’abbiamo fatta!».
«Di questo lavoro – ci spiega Paola – amo il contatto con la maternità. È importante che tra il personale e le mamme si crei un rapporto reciproco di empatia».
Il primario vanta i meriti del suo team: «Medici e ostetriche sono giovani, preparati ed entusiasti. E sanno come affrontare anche situazioni difficili con freddezza e umanità».
Perché quando Francesca arriva al momento finale del suo travaglio, dopo oltre 24 ore in ospedale, per dare alla luce i 4 chili del piccolo Pietro, è un momento difficile. Noi la incontriamo in corridoio otto ore dopo, lo ha appena portato al nido per prendersi due ore di riposo: «Sembro giovane? Sì, ho 27 anni… anzi no, che dico, sono 29! Però devo sembrare giovane perché le ostetriche mi chiamano “la ragazzina”». Anche lei – come quasi tutte, confessano le ostetriche – a un certo punto ha chiesto il cesareo: «Non me l’hanno fatto. E hanno avuto ragione loro».
Ormoni e stanchezza offuscano il ricordo del momento della nascita di Pietro: «Devo ancora razionalizzare – ci pensa su… – però ricordo bene che le ostetriche erano felicissime: una mi baciava, un’altra ci ha fatti mettere in posa per la foto. Erano con me, erano davvero felici». Qualche minuto dopo Pietro è atterrato pelle a pelle sulla sua mamma: «Lì ho capito quello che avevo appena combinato – sorride Francesca – Gli ho detto: “Ciao, ce l’abbiamo fatta”. Adesso (dopo un bel panino con il salame) impariamo pian piano a fare le cose insieme. È il nostro giorno zero».

Lucia invece siede sul letto e scambia due parole con la compagna di stanza aspettando l’induzione al parto. È il giorno di Beatrice. Sa quello che sta per accadere perché 13 mesi fa, proprio qui, in questi corridoi, ha dato alla luce Bianca: «Non volevamo lasciarla sola, ci piace l’idea che cresca con una sorellina». Il ricordo è fresco e qualche timore c’è: «So che ce la posso fare. So anche – ride – che dovrò contare su quelle risorse che una mamma scopre di avere nel momento del parto». Qual è il piano? «A dire la verità il piano che avevo in mente prevedeva l’induzione di prima mattina, così mio marito sarebbe stato libero per portare a letto Bianca questa sera…». Perché con una nascita là fuori cambia tanto, ma non proprio tutto.

In questo momento ci sono due travagli in corso. Da una delle due sale parto esce Pardeep, taglio di capelli alla moda, qualche piercing e un chiaro accento della bassa cremonese: «Posso fermarmi poco… sai c’è mia moglie che sta per partorire e non conosce bene l’italiano. Se ha qualche dolore particolare devo dirlo io alle ostetriche».
Martina lo dice sempre: «Non siamo noi a far nascere i bambini: è la mamma la protagonista. Insieme al papà, che vive un momento difficile, ma è il vero riferimento per le donne in sala parto. È lui che protegge la famiglia. Noi ostetriche siamo un sostegno e una guida». Per questo le gravidanze considerate a basso rischio – spiega il primario – sono gestite da loro. Ma durante il parto possono esserci complicazioni e a quel punto la responsabilità primaria passa al medico».
È successo ad Anna e a Gianrico, che incontriamo appoggiati al vetro del nido mentre mostrano a un amico il piccolo Riccardo. «Non sapendo fin dove potesse arrivare il dolore cercavo di soffrire in silenzio – racconta la giovane neo mamma – poi però lui è andato in sofferenza ed è uscito del liquido marrone e hanno dovuto operare un cesareo d’urgenza». Gianrico ha aspettato, spaventato, il primo vagito. «Quando l’ho sentito sono scoppiato in lacrime». Sua moglie lo guarda con tenerezza e le si inumidiscono gli occhi. Il dottor Riccardi ci aveva avvisato: «Sembra strano, ma dopo una nascita affrontiamo più pianti che risate… sono gli ormoni». E le emozioni.
Manuela e Antonio le hanno vissute a casa. Hanno scelto di non partorire in ospedale, oggi sono qui per una visita nel quinto giorno di vita della piccola Maya, una bella bimba che inganna l’attesa poppando in corridoio. «Il primo bimbo è nato qui – spiega la mamma, presidente di una onlus che riunisce un gruppo di genitori per informare su allattamento, babywearing e maternage ad alto contatto – ma per questa seconda maternità abbiamo scelto il parto a casa. Non che la prima esperienza sia stata negativa, ma troviamo questa modalità più rispettosa dei tempi della mamma e della bimba, in un ambiente meno medicalizzato». Certo, ci sono due ostetriche assunte privatamente e un pediatra. «Dev’essere un parto che non prevede rischi» spiega il papà. E in caso di imprevisti? «L’ospedale è avvisato che c’è un parto in corso e se serve ci si mette in auto per il trasferimento al pronto soccorso». Fortunatamente la piccola Maya non ha avuto bisogno di provare il brivido.

«Prego, se volete…». Paola apre le porte scorrevoli delle sale parto. Indossiamo copriscarpe il cellophane blu e la “vestaglia” di carta verde che si strappa sotto le ascelle mentre cerco di infilarci il braccio. L’ultima volta ero meno rilassato… E scatto un selfie per mia moglie: “Ti ricorda qualcosa?…”.
In “Sala Rosa” Utkarsh (che significa “onore a Vishnu”) è al mondo da meno di un’ora. Munisha, la mamma, siede sul letto con la lunga coda di capelli neri ben annodata e un sorriso disteso. È il suo terzo parto ma aveva un po’ di timore perché il secondo figlio era nato con il cesareo: «Ma le ostetriche sono brave, proprio brave. Ho scelto il parto naturale – spiega – perché con il cesareo l’ultima volta avevo fatto fatica a camminare per qualche giorno. E stavolta ho una bimba di due anni che mi aspetta a casa».
Utkarsh è il terzo figlio, il primo maschio della famiglia. Papà Sumeer è felice: «Ma anche se era femmina…» assicura mentre aiuta la moglie a calcare una cuffietta sulla testolina morbida dell’erede. Era all’Elnos a comprare i vestitini («Là costano meno…») il pomeriggio di ieri. Appena in tempo perché la sera ha portato la moglie in ospedale.
«Ognuno dei figli ha portato una sua fortuna alla nostra famiglia: con la prima mia moglie ha iniziato a studiare durante la gravidanza e dopo il parto ha preso la licenza media. Le piace studiare». Munisha sorride senza smettere di accarezzare la piccina che strizza gli occhi. «Con la seconda figlia abbiamo comprato la nostra villetta». E adesso chissà… Il futuro è un intrigo di certezze e sorprese. C’è tutta la vita di Utkarsh, il primo maschio di famiglia, a parte quest’ora appena scoccata».
Tra qualche anno Sumeer ricorderà questa notte insieme a Harwinder: sono originari dello stesso paese in India, lavorano fianco a fianco nella campagna cremonese e si sono incontrati in sala parto. Per Harwinder, Upkar è il primo figlio, la moglie Palwinder è ancora stesa sul lettino sotto una coperta di lana. Un sorriso in favore di obiettivo incornicia un momento speciale.

È l’ora di prendere l’ascensore e scendere al piano terra per vedere da vicino il lavoro quotidiano dei sette medici e dei circa venti infermieri dell’Unità di terapia intensiva neonatale. Per entrare, la coordinatrice Monica Ravani ci mostra dove lavarci le mane e ci aiuta a legare il camice: «Anche le mamme passano dal locale filtro e si disinfettano le mani prima di venire a trovare i loro piccoli». I più piccoli tra i piccoli: qui arrivano i prematuri, a volte gravemente prematuri. E anche i bimbi che non hanno bisogno di cure speciali. Appena entrati c’è la sala allattamento con le sue poltrone verdi che, lì nella luce soffusa, profumano di pensieri grandi come la speranza di queste mamme per cui il travaglio non è ancora finito… Due passi più in là c’è un neonato che dorme con due garze sugli occhi, per proteggerli dai raggi della fototerapia per l’ittero. «È piuttosto comune», spiega la dottoressa Laganà con tranquillità. Nelle stanze successive, invece, le culle termiche sono coperte da copertine colorate. «Qui abbiamo la terapia intensiva». Oggi ci sono quattro minuscoli pazienti, altri quattro sono in post-intensiva (non necessitano più di supporti vitali).
Le mamme possono entrare in qualsiasi momento. «Qui hanno più paure, più incertezze e hanno bisogno di imparare a far fronte ai bisogni speciali dei loro piccoli». Li accarezzano attraverso gli oblò aperti su culle termiche che hanno le ruote come quelle del piano 7, ma hanno anche cavi, tubicini e una fila di display luminosi con i numeri.

In reparto Julia aspetta che il suo Darius torni da lei. Viene dalla Romania e non parla bene l’italiano. Ha solo 21 anni. «Tutto bene» sorride stanca. «L’ho tenuto con me solo una volta per adesso – racconta – ma non vedo l’ora di poterlo riabbracciare». Andrà bene, tra i nonni, appena arrivati dai Balcani, ci si scambiano sorrisi. E poi? «Poi si impara», non ha dubbi la neo mamma.
Si leggono in faccia, invece, alle mamme (e soprattutto ai papà) che assistono alla lezione di cambio e bagnetto al nido. «Oggi vi faccio vedere cosa succederà quando sarete a casa con il vostro bimbo», squilla allegra Giusy Costa mentre si passa il piccolo Giosia da una mano all’altra. Dalla tutina spuntano due gambette esili e rosse. Il “modello” apre la bocca sperando di trovare un seno, ma finisce nel lavandino e strilla per qualche secondo. Poi si passa al pannolino: «Ricordate: i maschietti sono infingardi… bagnano dappertutto». Il tutorial dal vivo sulla pulizia del moncone del cordone ombelicale dipinge curiose smorfie sui volti dei neo-genitori. Nessuno fa domande, ma Giusy risponde: «Tranquilli, non gli fa male».
Qui attorno, oggi, ci sono sette neonati, venuti alla luce nelle ultime 48 ore. A Cremona i parti non diminuiscono, ma i dati regionali e nazionali parlano di un calo costante della natalità. «È un problema economico e sociale – riflette il dottor Riccardi – in Italia abbiamo un ottimo sistema di assistenza al parto: finché possiamo permetterci di non chiedere il 730 alle mamme che arrivano qui per partorire ci prendiamo cura di loro pensando che qualcuno pagherà. Poi però il sistema di accompagnamento delle famiglie non è certo quello svedese: è come se dopo la nascita l’Italia si dimenticasse dei genitori…».
Non qui però. «Nel dubbio – sorride Giusy alle giovani mamme e ai giovani papà che rabbrividiscono all’idea di fare da soli un lavaggio nel nasino – in fondo alla lettera dimissioni c’è il nostro numero di telefono» .