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N.43 ottobre 2023

salute

Alzheimer, quei “piccoli sbagli” che cambiano rotta alla vita

Incontri carichi di umanità nel nucleo Alzheimer della Fondazione Germani di Cingia de' Botti, dove la fatica dei famigliari trova uno spazio dedicato alla cura quotidiana di relazioni sorprendenti

Annamaria, Paola, Rina, Fausto, Graziella, Anna, Ettore, Giancarla, Maddalena… nomi e volti, persone che hanno una storia, della quale però proprio loro non si ricordano più.

Sono i 34 residenti del nucleo Alzheimer di Fondazione Germani di Cingia de’ Botti.

Accanto ad essi, famigliari, mariti, mogli, figli o amici che ogni giorno si recano a fargli visita in un misto di commozione, sensi di colpa per non essere riusciti a tenerseli accanto, ma anche sollievo per poter tornare ad una vita tranquilla sapendo i loro famigliari al sicuro e curati.

«Noi non li mettiamo in queste strutture per liberarci di loro, ma perché non ce la facciamo più a casa. A volte mio marito usciva e non sapevo più dove andare a cercarlo. Se avessi potuto continuare a curarlo io a casa l’avrei tenuto volentieri con me il mio Fausto» ci confida la moglie Piera, che il suo “uomo bambino” chiama affettuosamente “Patatina”.

«Mi vuoi bene?» gli chiede lei.

«Sempre!» risponde subito Fausto, al quale la malattia non ha rubato quel sentimento d’amore istintivo ed imponderabile verso la sua compagna di una vita.

Anche Rina e Andrea si tengono per mano: lui le ha spiegato che questa è la sua nuova casa, dove starà bene e lei si fida. Oggi hanno giocato a briscola e Rina ha vinto 2 “mani” su 4. Dal 2021 la sua vita trascorre nel nucleo Alzheimer, dopo che per quasi 10 anni il marito ed il figlio Marco l’hanno curata a casa, assistendo ogni giorno ad un lento declino fatto di tanti piccoli “sbagli” quotidiani e dovendosi poi arrendere al fatto che le loro attenzioni non erano più sufficienti a garantirle il benessere necessario.

«È capitato che si allontanasse da casa, senza una meta. Noi non potevamo più gestirla – racconta il figlio Marco – oggi qui sta bene. Sa chi siamo, si ricorda di me e mio padre, però non riconosce mia moglie. Credo che sia una questione istintiva, affettiva o, chissà, di genetica». Forse si può trovare una spiegazione medica, ma per Andrea e Marco è sufficiente sapere che la mamma e la moglie non ha perso memoria degli affetti più cari.

Intanto nel corridoio il gatto Neve si aggira tra i residenti per portare un po’ di normalità all’interno di un reparto che vuole assomigliare il più possibile ad una casa, ma dove la normalità per questi ospiti ha la durata di un ricordo breve ed effimero, che si perde nella memoria ormai vacillante, dove passato presente e futuro si rincorrono e si incrociano senza un senso apparente.

Tutto comincia con piccoli segnali, a volte scambiati per banali errori o dimenticanze, che poi però iniziano a ripetersi troppo spesso, in modo anomalo ed allora scatta il dubbio; ma non è facile parlarne, soprattutto perché la persona interessata non si rende conto di cosa le stia realmente accadendo. Ed è proprio per questo che può trovarsi anche in situazioni spiacevoli o persino di pericolo.

«Serve tempo per vedere queste cose, per accorgersi che la vita della persona non è più su quella linea diritta che seguiva da sempre, ma che inizia a deviare – racconta Adriano, amministratore di sostegno ma soprattutto amico di Paola, 78 anni, che va a trovare ogni giorno. «Si tratta di cose banali, come non farsi la tinta, non cambiarsi una maglia macchiata, non ricordarsi del cibo in frigorifero. Mi sono accorto che qualcosa stava cambiando perché andavo spesso a trovarla e ho capito che non era più la stessa persona precisa e puntuale che conoscevo. Pensa che gestiva 22 persone sul posto di lavoro. Invece poi è stata raggirata da gente senza scrupoli che approfittando della sua situazione le ha portato via parte della sua pensione». Paola viveva da sola e non si stava rendendo conto di quello che queste persone le stavano facendo. Oggi, con l’aiuto dell’amico Adriano, vive al Germani, curata e al sicuro.

Con lei anche Annamaria, che ogni giorno con l’affetto di una madre cura la sua bambola, la Püa come la chiama in dialetto: non sta giocando, lei la cura davvero ed in quel bambolotto trova il canale per esprimere il proprio affetto e forse anche il fatto di saper ancora prendersi cura di qualcuno, a modo suo. «Un giorno stava bevendo un succo ed ha provato a darlo anche alla sua bambola, rovesciandolo sul tavolo – racconta Laura, coordinatrice del reparto – non potevo dirle che era una cosa sbagliata, allora le ho semplicemente detto che non andava bene il bicchiere per un neonato, ma serviva il biberon e glielo avrei preparato subito». Piccoli gesti per rimettere in ordine un momento di vita destinato ad essere subito dimenticato.

Poi c’è Graziella, che lavorava in una casa editrice e che oggi ama ancora i libri e scrivere a macchina; Ettore invece spesso passeggia in corridoio con la sua valigetta da lavoro: insegnava matematica e ancora oggi si sente un professore.

In salone invece ci sono Anna, 82 anni, con la figlia Clara.

Anna è tranquilla, sorride e sembra serena; tiene le mani in grembo e parla con la figlia, guardandosi attorno nella sua nuova realtà: è arrivata da pochissimo, da solo dieci giorni.

Clara le parla con dolcezza, cerca di farle riaffiorare alla memoria i ricordi di una vita, le passeggiate in montagna che Anna amava tanto fare, il paese d’origine Asola ed anche il suo film preferito, Ben-Hur, per il quale Anna ha un sussulto: «Sì, Ben-Hur, mi piace tanto, lo guardavo sempre».

Scorrono sul cellulare le foto dei nipoti e tra le tante immagini ne compare una in bianco e nero, scattata decenni fa: sono due giovani sposi, bellissimi e sorridenti nel loro giorno più importante. Anna li guarda sorridendo e chiede «Chi sono?».

«Siete tu e il papà. Ti ricordi? Come si chiamava il papà?». Ma nella memoria di Anna non c’è più quel nome, come non si trova più il volto una volta tanto famigliare dell’uomo che ha sposato e le ha dato tre figlie.

Sull’espressione di Clara un velo di tristezza, che non copre tuttavia una sentimento reale di sollievo: «Io e la mamma vivevamo insieme. Non è stata una decisione facile ma a casa non ce la facevo più».

La stessa frase, le stesse parole ripetute da tutti i famigliari, la stessa decisione drammatica quanto inevitabile che segna le vite di chi deve rimanere ad osservare una madre, un padre, un marito che poco alla volta perdono lucidità e consapevolezza.

«Spesso capita che la condizione di una persona cambi da un giorno all’altro e che improvvisamente la famiglia si trovi di fronte ad una situazione che non riesce più a gestire a casa – raccontano le giovani operatrici del reparto, Camilla, Irina e Valeria – il carico assistenziale diventa opprimente e quindi i parenti si trovano costretti a chiedere il ricovero in una struttura adeguata. Con tanti sensi di colpa che ne derivano. Spesso poi succede che la persona una volta qui da noi, curata e seguita a 360 gradi, ad un certo punto ritrovi un certo equilibrio e una nuova forma di stabilità. Allora i famigliari si scontrano con l’idea che tutto sommato potrebbero provare a riportarli a casa e tornare ad occuparsene. Ma non è così, purtroppo oltre a non essere possibile sarebbe controproducente per l’ospite».

Qui al nucleo Alzheimer ogni giorno si incrociano ormai inconsapevoli le vite di donne e uomini che ad un certo punto hanno iniziato a discostarsi dalla linea retta della normalità per prendere forme contorte ed oscure da sondare. Le forme di un morbo che inizia subdolamente con errori banali, sbagli di poco conto che si rivelano in tutta la loro dirompente realtà. Ma che qui, giorno dopo giorno, diventano passi di una strada nuova, che continua anche quando la salita si fa più ripida.