magia

N.28 Febbraio 2022

RUBRICA

«Appuntamento con un albero»
Victor Erice e la natura che trasforma

In "El sol del membrillo" il regista spagnolo segue il lavoro del pittore Antonio López García che ritrae un albero di mele cotogne E nello sguardo dell'arte si rivela l’invisibile che c’è tra le cose

«Si trattava, innanzitutto, di partire dalle cose come sono e, muniti dei propri strumenti di lavoro, di presentarsi all’appuntamento con un albero». Così Víctor Erice racconta la genesi del terzo dei suoi lungometraggi, El sol del membrillo (Il sole del melocotogno, 1992), presentato al Festival di Cannes dove ha riscosso numerosi premi. Il film – per alcuni un documentario, in realtà un’opera difficile da rubricare in una categoria troppo netta – è il racconto dell’attività del pittore spagnolo Antonio López García, ripreso nell’atto di riprodurre sulla tela un albero di mele cotogne nelle sue variazioni luministiche.
Il film suggerisce una sfida “al quadrato”: quella della rappresentazione cinematografica di una rappresentazione pittorica del reale. O, in altre parole, la creazione della cornice di una cornice, evocata con precisione rigorosa, quest’ultima, fin dalle prime scene del film in cui si vede il pittore che predispone attentamente la tela, inchiodandola alle assi di legno, e fissa un punto di osservazione con un complesso sistema di cordicelle, per evitare di modificare nel tempo la sua visuale. Anche il regista, impegnato nella documentazione audiovisiva, conserva la medesima precisione del pittore, sia attraverso inquadrature pulite e geometriche, sia con indicazioni temporali che misurano la durata dell’evento, iniziato il 29 settembre 1990, in una giornata che preannuncia l’ingresso nell’inverno.

«Si trattava, innanzitutto, di partire
dalle cose come sono
e, muniti dei propri strumenti di lavoro,
di presentarsi all’appuntamento con un albero»

L’ordine con cui gli strumenti sono predisposti rinvia alla cura per il lavoro, e il lento dipanarsi dei gesti del pittore evoca una quotidianità fatta di azioni ricorrenti, di lavoro ordinario che abbraccia via via tutta la tavolozza dei colori della vita allargandosi alla moglie del pittore, agli operai che stanno ristrutturando la loro casa, ai bambini che giocano e alla vicina stazione del treno, accogliendone le sonorità (dal vento al canto del pittore, ai dialoghi). Anche l’albero di mele cotogne partecipa di questo movimento vitale, apparentemente saldo e immutabile, destinatario degli sguardi del pittore che ne cattura l’essenza sulla tela, e della macchina da presa che ne riprende gli sguardi, spesso sostituendosi a lui con uno sguardo vicario.
Apparentemente Il sol del membrillo celebra il trionfo del reale, la fenomenologia di micro-eventi che scandiscono vite e cose, attraverso un occhio raffinato e sensibile. Ma, come osserva David Bruni, quello di Erice è «uno sguardo sostenuto dalla volontà di osservare con estrema attenzione un frammento di realtà visibile e da un’ampia fiducia nella possibilità di giungere alla rivelazione di una “verità” che non sia il frutto di un assunto preordinato, stabilito a priori, ma che scaturisca durante la lavorazione del film, in maniera analoga alle modalità su cui si fonda la pratica del pittore» .

Questa rivelazione è precisamente la magia insita nella contemplazione artistica del reale. Magia di chi prova a rivelare l’invisibile che c’è tra le cose, quello scarto che la velocità e la sintesi tipiche del cinema narrativo non riescono a esprimere. Così come magia è il sogno – lo stesso del pittore – di catturare il sole invernale che passa rapidamente sulla cima dell’albero senza lasciare impronte che possano essere trattenute.
L’epifania non è frutto del caso. Solo un occhio attento e allenato è capace di suscitarla. Così Erice accetta la fatica di registrare quotidianamente il lavoro del pittore, di mettere la macchina da presa esattamente dove si situa il suo punto di vista. «In questo tentativo», sostiene, «l’occhio della macchina da presa ha manifestato i suoi limiti, e colto delle differenze (ad esempio nel formato dell’inquadratura, nella profondità di campo e nel colore) che hanno rivelato, in modo molto semplice, alcune delle caratteristiche generali e specifiche di entrambi i mezzi di espressione» . Così il cinema rivela nella durata temporale ciò che la pittura, apparentemente sintetica, non può esprimere, e permette di vedere e sentire quello che il dipinto fa necessariamente scomparire.

Ma la magia, come è noto, opera meraviglie. Nella parte conclusiva del film – dopo che ci è stato permesso di seguire da vicino le numerose traversie che accompagnano la vita e il processo della creazione artistica – il regista cambia radicalmente prospettiva. Come in un sogno cupo e quasi lugubre, le immagini mostrano il pittore immobile a letto, accanto a busti di gesso, le sue opere tra le quali il suo profilo si confonde, mentre la voce over racconta di un incubo vissuto da bambino. Anche il melograno è buio e cupo. Le mele cotogne, riprese da vicino, mostrano il lavoro del tempo che le porta alla decomposizione Accanto all’albero sosta la cinepresa, priva di operatore, come in una natura morta.
Al lavoro dell’arte, sembra voler affermare Erice, si contrappone sempre quello della natura. Pur rivelata e sublimata dai linguaggi espressivi, la natura torna sempre a reimpossessarsi del proprio potere magico e trasformativo, il potere di continuare il ciclo della vita che, dopo la lunga e complessa stagione dell’inverno, con il portato di cupezza, di buio che la connota, riesce ad aprirsi – di nuovo, e magicamente – al ritorno gioioso della vita e della primavera.
Basta «aver fede nella realtà», ricorda Erice, per vederne la magia. Basta ricordarsi di tornare a quell’ineludibile «appuntamento con un albero» da cui tutto ha inizio.