nodi

N.10 Aprile 2020

SE RESTIAMO UNITI...

Difficile come respirare

L'emergenza coronavirus raccontata dalla dottoressa Grappa anestesista della Terapia intensiva all'ospedale di Cremona «Fare tutto quello che puoi, senza avere abbastanza da dare: è il nodo che toglieva il fiato Ma risentire la voce di un paziente è il segno della rinascita»

illustrazione di Giulia Cabrini

«Io sono il medico della Terapia intensiva. Mi presento così, è normale che il paziente si preoccupi. Così la prima cosa che faccio e cercare il suo cellulare e farlo parlare con i famigliari. Qualcuno di loro mi ha chiesto: “Davvero posso?”».

Il mestiere della dottoressa Elena Grappa, neuro anestesista dirigente della Terapia intensiva all’Ospedale di Cremona è sempre lo stesso; ha a che fare con i nodi della vita, quelli che si sciolgono e quelli che soffocano, quelli che ci tengono attaccati alla vita e quelli che creano legami.

I groppi in gola e quelli che schiacciano le vie aeree.

«Resta il mio lavoro anche se all’improvviso la quantità è aumentata in modo inaspettato. L’epidemia ci ha soverchiati. Anche perché ci siamo trovati di fronte a qualcosa di nuovo, che non conoscevamo e per cui non sapevamo di quali armi poter disporre».

La dottoressa risponde al telefono in una mattinata di riposo. «Quando esco dopo un turno – si guarda attorno – oltre alla sensazione di straniamento della città deserta, ritrovo i miei riferimenti: la casa c’è, la mia famiglia mi aspetta, fuori è primavera…».

Un nodo con la normalità, che lentamente, un piccolo segnale alla volta, sembra più vicina a tornare. Anche in reparto, dove però l’emergenza mostra ancora i suoi segni: «Il covid ha cambiato il nostro modo di approccio alle persone: tra noi operatori e con i pazienti. Siamo vestiti diversamente, pieni di barriere che ci fanno perdere il contatto fisico, che nascondono i sorrisi, i nostri normali modi di comunicare». Di spiegare, rassicurare, accompagnare.

C’è un nodo nel respiro. I macchinari che lampeggiano, i tubi da cui passa silenzioso l’ossigeno, le maschere sul viso, gli occhi chiusi. «Nel nostro lavoro – osserva l’anestesista – il contatto con la morte è quotidiano. Ma qualcosa è cambiato: è come se l’aria fosse diventata un nemico, un pericolo invisibile. E poi colpisce la quantità delle persone: sono tante e nella comunità in cui vivi ti accorgi di conoscerle. Senti che si avvicina. E ti metti sul chi va là, che per il lavoro che fai potresti essere tu stesso il latore del contagio. Pensi a chi ti sta intorno».

A là fuori dove la vita cerca di proseguire rincorrendo un “dopo” con meno dubbi, meno paure. O – ci auguriamo – non più che quelle di sempre.

«È come se l’aria
fosse diventata un nemico,
un pericolo invisibile»

La dottoressa Grappa ha aggiornato il profilo whatsapp: sotto la foto di una bella spiaggia deserta sotto ad un cielo mosso da nuvole bianche, c’è una frase di Joseph Conrad: “Nothing should ever be taken for granted”, “Niente dev’essere mai dato per scontato”. Nemmeno respirare.

«Tutto è fragile»: c’è un tempo per pensare. Domani si tornerà a correre nei corridoi della terapia intensiva. Il lavoro ora concede qualche serenità in più. La curva dell’epidemia sembra finalmente aver iniziato la sua discesa. La frenesia ha allentato un poco il suo nodo che ha stretto forte per oltre un mese. «È stato uno dei problemi – racconta – quello di essere sopraffatti dalle richieste di cura che erano superiori a quanto noi potevamo dare. Ci ha costretti a fare scelte: andare prima da una parte piuttosto che dall’altra, dare la precedenza ad un paziente piuttosto che a un altro… Fare tutto quello che puoi, senza sprecare un solo secondo di tempo, ma non avere abbastanza da dare: questo era il nodo che toglieva il fiato».

Ma a lasciare senza fiato è anche qualcosa di improvvisamente, inaspettatamente bello. Come una guarigione. «Come una voce. Quella che un paziente intubato perde. Io li avviso prima di addormentarli: “quando si sveglierà non riuscirà a parlare, ma non si preoccupi”». Ma è difficile, terrorizza essere soli fino a quel punto, senza sapere come andrà. «Per questo ti lascia senza fiato quando togli il tubo e torni a sentire la voce del paziente. Oppure la scopri se non sei stato tu ad addormentarlo. Si rimodula il respiro e la persona torna davvero se stessa. Lì il nostro lavoro si sta concludendo. È come una rinascita».

Riemergere dall’apnea, tornare a respirare senza aver paura dell’aria: «Non so se questa pandemia ci avrà insegnato qualcosa – riflette Elena Grappa – ma mi auguro che impareremo ad apprezzare.tutto: il fiatone quando torneremo a correre, il fiato sospeso per un’emozione, il respiro tranquillo della calma ritrovata».