spazio

N.41 Maggio/Giugno 2023

IN PRIMA PERSONA

Il mio spazio nel nuovo mondo

C’è un concorso di colpa nel potere che l’ambiente in cui siamo immersi esercita sul nostro divenire di essere umani e su come noi lo mutiamo crescendoci dentro...

Vista su Manhattan, stato di New York

Mi pare che il mondo si possa dividere in due grandi metà: quelli che fanno come gli alberi e quelli che fanno come i fiori. C’è chi ingrassa nel sentire le proprie radici camminare verso il centro della terra. La stabilità dell’arroccamento come quintessenza della beatitudine. Conoscere a memoria lo spazio in cui si è cresciuti e ci si muove garantisce una certa confidenza: non ci sono nuovi stimoli, ma nemmeno sconosciute avversità. Quella prevedibilità che funziona come un miorilassante prodigioso per chi ama rimanere agganciato al noto è l’urticante di quelli che preferiscono cadere dal ramo e vedere dove li può portare il vento. Esplorare nuove dimensioni per vedere se ci sono spazi dove la nostra natura si inclinerebbe meglio.
Tutta la nostra identità è costruita sugli spazi. C’è un concorso di colpa nel potere che l’ambiente in cui siamo immersi esercita sul nostro divenire di essere umani e su come noi lo mutiamo crescendoci dentro. Ridisegniamo il contesto già nell’atto di prenderne le misure: lo occupiamo, lo riempiamo, lo evitiamo, ne rivendichiamo o cancelliamo gli angoli. Non è eccessivo affermare che il contenitore in cui viviamo si trasforma in un’estensione di ciò siamo. Diventa un terzo braccio con il quale agiamo noi stessi, i nostri desideri o le nostre proteste. Il quarto occhio con cui interpretiamo ingiustizie e meraviglie che abbiamo davanti, il gusto attraverso il quale assaggiamo l’altro. Ci riflettiamo nello spazio e dallo spazio siamo riflessi, deformati.
Devo essere una specie di incrocio ibrido, come ce ne sono tanti altri nel mondo, tutti diversi. Ho sempre sentito un richiamo verso il mondo fuori dal reticolo gonzaghesco in cui sono nata, ma mi è bastato un anno di università a Milano per tornare spaventata a casa. Ho preso una rincorsa lunga prima di riuscire ad ascoltare quella parte di me che era convinta ci fosse vita molto interessante oltre la provincia mantovana. Il primo balzo è stato al meno uno di un centro commerciale nel cuore finanziario londinese, in un bar-isola governato da luce artificiale dove facevo caffè a un esercito di ragazzini e uomini in giacca e cravatta. Quello spazio costruito pieno di rumore e privo di aria naturale era il termometro perfetto di quell’esperienza assurda: Londra era la meta più esotica che mi potessi psicologicamente permettere, e tutto sembrava essere ostile. Invece era solo nuovo, diverso.

Tutto sembrava ostile.
Invece era solo nuovo, diverso

Il vento ha soffiato di nuovo, e dopo un anno a Oxford sono ritornata in quella Milano che – non mi vergano a dire… – avevo detestato. Milano-cemento è diventata casa per quattro lunghi anni nei quali siamo cambiate assieme, imparando a fidarci l’una dell’altra. A cercare i contrasti per imparare a capirli invece di evitarli. Milano e i suoi chiaroscuri mi hanno fatta innamorare lentamente; lei e i suoi incroci di possibilità hanno fatto il solletico a certi desideri che avevano paura mi seccassero troppo le radici. Così è successo che quasi un anno fa sono volata in America, e ho cambiato spazi.
Ci sarebbero un’infinità di cose da dire sugli spazi americani. La più banale è che sì, a New York arrivi e ti sembra di esserci già stato perché le sue strade, i suoi muri di mattoni, i taxi gialli e i tombini che fumano li hai già visti tutti dentro i film. Sei a seimila chilometri da casa ma ti sembra di essere in un posto famigliare, amico. Tra la sua griglia di strade ritrovi tutti i cliché che ti si aspetti di incontrare: i caffettoni take away, gli ambulanti con gli hotdog, gli scoiattoli a Central Park e le metro rumorosissime… Un contesto lontano e diverso, eppure a tratti prevedibilissimo. Il continente europeo è cresciuto imboccandosi del mito americano, e spesso cadiamo nell’errore di credere di conoscere benissimo la cultura americana solo perché siamo ben preparati sui suoi stereotipi.
Gli Stati Uniti non sono le sue grandi metropoli, o almeno non solo. Le città non sono i suburbs, e lo stato del New Jersey non è l’Oklahoma. Ci vogliono 43 ore di macchina per andare da costa a costa: sono circa 46mila 700 chilometri. Questo da solo dovrebbe bastare a dare un’idea dell’estensione, e quindi della estrema diversità che caratterizza gli Stati Uniti d’America.

Qui gli spazi si allargano
in tutte le direzioni,
si intrecciano e reclamano
la voce di chi li abita

Il paesaggio americano è un inno alla contraddizione, e quindi alla ricchezza. Distese (per chilometri e chilometri) di campi e riserve naturali si alternano a città sfrontate che si proiettano verso l’alto. Quartieri residenziali nascono in mezzo a zone che fino a trent’anni fa nessuno voleva nemmeno attraversare a piedi. Spazi che prima del Covid erano il cuore pulsante della produttività newyorkese oggi sono vuoti, lasciando arterie della città diventare il fantasma di loro stesse. Qui gli spazi si allargano in tutte le direzioni, si intrecciano e reclamano la voce di chi li abita.
L’America è quel posto dove è impossibile orientarsi. Se togliete il reticolo geniale della Grande Mela, le altre città e cittadine vi sembreranno tutte uguali. Da italiana ed europea abituata a piazze e palazzi che danno il senso dello sviluppo urbano, qui mi sento sempre persa. Mi sembra tutto uguale e non so mai se devo girare al prossimo incrocio o se l’ho già passato.
A New York, e come in parte del New Jersey, si parlano più di 800 lingue. Anche questo da un’idea chiara di quale Babele di storie ed esperienze sia questo pezzo di terra che si affaccia sulla costa Est. Gli spazi diventano un caleidoscopio di culture, lingue, credi e abitudini: i graffiti sui muri, i negozi di alimentari, gli slang e gli accenti su cui tutti si devono ad ogni nuovo interlocutore sintonizzare urlano un interculturalità che in Europa ci sogniamo, e che qui osservo ancora con grande stupore. Non è questione di perfezione, figurarsi, quanto di rappresentazione. In realtà così impastate diventa chiaro come avere uno spazio dove realizzarsi fisicamente permetta di esistere e resistere. Di combinare la propria voce alla polifonia che già sta suonando, trasformando il contesto in cui si ha attecchito.
Avevo paura di sentirmi fuori posto, e invece in questo spazio così caotico e interpersonale ho trovato la possibilità di scoprire una mia nuova identità. Non mi sarei mai incontrata se non avessi ascoltato tutte le storie che ho incrociato in questi mesi.
Questa parte di America dove vivo io sembra un giardino all’inglese: non c’è una pianta uguale all’altra. Sono tutti fiori venuti da chissà dove, che qui hanno trovato uno spazio per rinascersi, mettere nuove radici, stravolgere la biodiversità autoctona per arricchirla. Ciò che sono, lo spazio da cui vengono, la storia del loro albero, se la portano nel seme, non va persa.
I fiori alla fine sono solo le gambe di quegli alberi che avevano preferito mettere radici.