sfide

N.27 Gennaio 2022

PARKOUR

L’arte di spostarsi che insegna il rispetto e impara dalla paura

Incontro con i "traceurs" di via dei Cappuccini: dicono che "saltano dai tetti" per qualcuno sono vandali, ma prima di appoggiare le mani raccolgono lattine e cartacce

In periferia è già scesa la sera. L’asfalto lucido riflette le luci delle automobili che svoltano in via Cappuccini. All’angolo di una vetrina illuminata si ritrova un gruppo di giovani “traceurs”, pronti ad affrontare un nuovo allenamento di parkour. Li accomuna la voglia di sfidare i propri limiti, o di rispettarli. L’umidità pizzica i sensi, il respiro sfugge dalle mascherine in nuvole di condensa, mentre in cerchio sciolgono i muscoli con un rapido riscaldamento. Dopo un ripasso delle basi, tracciano insieme il percorso che quella sera li metterà alla prova. Il piazzale è la loro palestra a cielo aperto, rischiarata solo dal giallo dei lampioni, che gettano ombre dinamiche sull’asfalto.
Per Emanuele, traceur da quasi otto anni, il parkour «è la massima espressione di libertà di movimento». Nata negli anni Ottanta in Francia, la disciplina sportiva coniuga energia, agilità e precisione: «L’unica regola è che non ci sono regole – spiega il ragazzo – occorre compiere un percorso da un punto A ad un punto B, in cui ognuno può esprimersi come più gli piace».
Uno ad uno i partecipanti propongono un passo, per aggiungere un tassello alla sequenza di movimenti che via via si snoda nelle tre dimensioni dello spazio a disposizione. Muretti e panettoni di cemento sono appigli fidati su cui tessere l’improvvisazione di una sera. I corpi si contraggono come molle, si raggomitolano in sfere, sono materia che prende forma a seconda della superficie che incontra. Fluidi come i pensieri, seguono il ritmo delle suole che impattano sul cemento umido.
In bilico sul ciglio di un muretto un paio di ragazzi misurano le distanze con gli occhi. Immobili, i muscoli tesi. È il momento in cui la mente trova equilibrio e decide se spingersi oltre o stare. «I vuoti possono spaventare – commenta Emanuele – perciò non bisogna lanciarsi senza riflettere. Bisogna studiare la situazione, prendersi tutto il tempo necessario. La libertà sta nella scelta, anche di non saltare».
Un passante curioso rallenta l’andatura, lancia un’occhiata e prosegue con un pizzico di diffidenza. «Quando dico che pratico parkour mi chiedono se salto dai tetti!», racconta Silvia ridendo. Ha sedici anni, da due e mezzo si allena. «Mi ha insegnato a conoscermi meglio, ad affrontare i problemi, a cadere… Qui nessuno ti giudica».
Lorenzo ha la stessa età e tre anni di esperienza alle spalle: «Nel parkour ho trovato la mia dimensione – afferma – in passato ho praticato tennis, poi ho deciso di allontanarmi dall’agonismo e dalla competizione fine a se stessa. In questo sport l’obiettivo è divertirsi: siamo amici, non avversari». Allenarsi insieme è il modo per condividere esperienze, comporre nuovi schemi. Come una danza silenziosa, in cui l’obiettivo è non perdere il contatto con ciò che ti circonda.

«Siamo cresciuti sentendoci ripetere
che non sta bene mettere le mani in terra,
ma farlo significa tornare in contatto
con ciò che ci circonda»

«Per molti siamo “quelli che saltano sui muri”… Ma dove una persona vede una ringhiera noi vediamo una possibilità». Alex Cartagini è presidente dell’associazione cremonese Linebreakers, nata cinque anni fa «per dare un’identità e un volto più serio a qualcosa che molte persone non consideravano tale». Oggi il gruppo conta 25 iscritti con un’età compresa tra i sette e i trent’anni: «Molti fanno fatica ad inquadrare questa disciplina perché mancano tutte le condizioni che normalmente sono associate all’idea canonica di sport», spiega Alex. Niente campo, niente palloni né “allenatori”, ma soprattutto niente competizione.
«Il parkour è l’arte dello spostamento: insegna alle persone come muoversi nello spazio che le circonda».
Passi, salti, capriole, ogni movimento è calibrato secondo la persona: «Abbiamo storie, bisogni ed energie diverse, che cambiano il modo d’interpretare lo stesso sport. L’obiettivo comune è allenarsi senza farsi male, ognuno al proprio ritmo».

Una serata di allenamento con i “traceurs” dell’associazione Linebreakers

La cultura del rispetto è fondamentale, non solo all’interno del gruppo: «Chi ci osserva – prosegue Alex – spesso ci associa alla cultura “street”: pensa che siamo vandali, quando probabilmente abbiamo molta più cura della città e dell’ambiente di tante altre persone. Prima di allenarci in uno spazio, ci impegniamo a ripulirlo da cartacce, rifiuti, cocci di bottiglia… Siamo cresciuti sentendoci ripetere che non sta bene mettere le mani in terra, ma farlo significa tornare in contatto con ciò che ci circonda».
Aver cura degli spazi come di se stessi. Ecco la chiave per migliorarsi, «a partire dall’ “armatura del corpo” – cita Alex – così la chiama Laurent Piemontesi, uno dei fondatori di questa disciplina. Il nostro corpo è in grado di fare cose che la nostra testa non pensa. Il salto si fa prima con la mente, poi con le gambe». La preparazione fisica è la base, ma nessuno è invincibile: «La paura è fondamentale – sottolinea – serve a capire qual è il limite e a non superarlo. È importante saper decidere quando fermarsi, quando non ne vale la pena». Il confine sta nella sottile ma netta differenza tra rischio e pericolo: «In questo sport gli infortuni sono rarissimi, perché tutti hanno bene presente che se ti fai male hai finito».
Per questo motivo il parkour è protagonista di stage aperti alle scuole, senza limiti di età. «Il nostro corpo è fatto per arrampicarsi, correre, saltare: libertà è farlo senza schemi, senza il bisogno di dimostrare qualcosa». La dimensione della sfida è tutta interiore: «L’obiettivo è essere migliore di ciò che sei stato ieri».