ombre

N.34 Ottobre 2022

RUBRICA

Note da film… colonne d’emozione

Perché Stravinsky sbagliava nel definire la musica da film come semplice "tappezzeria" all'immagine...

Probabilmente chi non è dentro alle questioni musicali non l’avverte più di tanto, ma quando si assiste ad un film, documentario o programma televisivo si sentono musiche in pieno volume ed altre che restano in sottofondo, quasi in ombra, potremmo dire. È una caratteristica delle colonne sonore avere uno o più temi, motivi, melodie principali, spesso ricorrenti, accanto a musiche che apparentemente non hanno qualità particolari e possono stare in secondo piano, a mo’ di fondale apparentemente insignificante. Fin dalla nascita il cinema ha avuto bisogno del sonoro. Ancora oggi si può comprendere l’angoscia dei primi spettatori che vedevano cortometraggi dentro ad un tendone da circo in silenzio: provate a immaginare un treno che vi viene incontro senza sentirne il rumore, per esempio, come succedeva alle proiezioni dei fratelli Lumière. La musica si associò pressoché subito all’immagine con pianisti accompagnatori, piccoli complessi, addirittura talvolta la grande orchestra. La musica toglieva disagio e immetteva nell’intrattenimento. Nell’epoca del film muto nacquero partiture completamente originali, appositamente composte per determinati film di prestigio. Il cinema può, così, vantare musiche di autori celebrati, con risultati notevoli anche sotto il profilo artistico che giungono fino all’alba degli anni Trenta. Saint-Saens, Mascagni, Prokoviev, sono soltanto alcuni dei grandi compositori classici che hanno lasciato importanti opere per film. Quando si giunse al sonoro totale nel cinema si provocò una febbre alta, quella dei film parlati al cento per cento. Le conseguenze furono che, a livello estetico, il cinema segnò un regresso, finendo ad essere un surrogato del teatro dal momento che molti cineasti e intellettuali si dichiararono contrari al sonoro definendo la musica da film pratica bassa o servile.

Ancora oggi, specialmente negli gli ambienti accademici, l’atteggiamento della “grande musica” nei confronti del cinema, è nettamente ostile, talvolta di sopportazione. “Tappezzeria”, secondo la sprezzante definizione di Strawinskij («La musique du film? Du papier peint»). Ma la storia è piena di giudizi sbagliati, anche se vengono da personalità illustri. I musicisti di colonne sonore a partire dagli anni Trenta un poco alla volta si buttarono alle spalle il tardoromanticismo, l’impressionismo, il neoclassicismo e quant’altro sembrava padroneggiare la storia e gettarono ponti verso il jazz, il popolare melodramma, il surrealismo, la musica di consumo, le macchine, i rumori, arrivando a risolvere la non-necessità del commento sonoro in presenza di un parlato da cima a fondo con una incisività nello stesso tempo potente e discreta. Potente quando sottolinea e incornicia il film dentro a musiche iconiche e scolpite, discreta quando deve solo creare uno sfondo emotivo. Quella che era una paura dei musicisti, di essere esclusi per manifesta inutilità, si è rivelata invece una sfida risolta alla pari: il cinema non può fare a meno della musica e la musica rende significante il film. Perché il film non è solo una sequenza di immagini, ma è emozione che scaturisce da quelle immagini. E chi può suggerirle, suscitarle, farle esplodere, insinuarle, ricordarle (potremmo continuare per un bel po’) se non il linguaggio dell’interiorità per eccellenza che è la musica? Non soltanto i temi o i motivi restano nella mente degli spettatori, ma intere colonne sonore diventate famose, come quella di Star Wars di George Lucas o de Il padrino di Francis Ford Coppola, ormai identificano mondi nell’immaginario collettivo.

Tutto concorre a dare importanza
a ciò che è essenziale
e quanto resta in ombra
serve a mantenere la tensione

Eppure, la musica si annulla nell’immagine, dicono ancora oggi. Addirittura, secondo alcuni, il lavoro del compositore è subordinato alle esigenze di colui – il regista – che viene investito della responsabilità ultima del risultato complessivo; in pratica, il musicista da film sarebbe un mestierante venduto alle immagini e al profitto. Peccato che sia anche il profitto a dirci che quella della musica per film è arte viva: perché è bellezza di forme e di stili, perché risponde a ciò che siamo oggi, perché ha un pubblico che la conosce e la sa decodificare subito, la richiede e la paga perché appaga. La realtà, poi, è assai più semplice e complessa insieme: né più né meno dell’opera lirica (di cui il cinema è l’evoluzione) in cui vi è bisogno di una scenografia, il film è azione scenica con commento sonoro. L’uno e l’altro sono paritetici e il genere è fatto di immagine e suono inscindibili l’uno dall’altro. Si tratta di musica che appartiene ad un genere che ha due facce, da intendere insieme, con regole e stilemi propri. Ma è “grande musica”, senza ombra di dubbio. Come il cinema ha raggiunto vette altissime di arte pura, così la sua musica ha culmini sublimi, nel connubio “tale film” con la “tale musica”, né più né meno che un Orfeo di Monteverdi e una Traviata di Verdi. Anzi, forse, dal punto di vista dell’introspezione psicologia e dell’espressività, l’oggi è di gran lunga meglio di ieri. Per la pace dei benpensanti.

La musica da film in ombra rispetto alle immagini, quella che si sente ma anche no, che commenta impalpabile, senza darsi tono, la maggior parte delle volte fa da sfondo ed è sicuramente “tappezzeria”, come diceva Strawinskij, ma rientra in quello che è la “forma” della colonna sonora. Sono tanti infatti gli interventi automatici, che scattano come meccanismi pavloviani, ormai obbligatori per determinate situazioni: i violini nelle scene d’amore, i vibrati degli archi per i momenti di suspence, gli ottoni maestosi sulle inquadrature delle inviolate cime di montagne, il jazz metropolitano per storie di gangsters, la musica elettronica per la fantascienza e via dicendo. Certo è musica dove non c’è ispirazione ma mestiere. Mestiere che fa il pari con i recitativi di Mozart o di Rossini (sfido chiunque a dimostrare che vi sia musica in collegamenti fra un’aria e l’altra, scritti in fretta qualche ora prima della recita…) o con il canto gregoriano insipido del XVI secolo alternato alla polifonia di un Palestrina. Tutto concorre a dare importanza a ciò che è essenziale e quanto resta in ombra serve a mantenere la tensione. E spesso vi sono capolavori di psicologia applicata alla musica; magari semplici pennellate, sfumature accennate o velature impercettibili, ma fanno parte di una grande arte destinata a uscire dal cono d’ombra restare nella storia della musica (e del cinema).