nodi

N.10 Aprile 2020

PERIFERIE

Sciogliere e riallacciare: c’è vita a Ca’ del ferro

Gli errori fatti, i murales sulle pareti la libreria e ciò che è rimasto fuori: racconti dalla casa circondariale dove il tempo dell'attesa è uno spazio per «mediare e rimediare. trasformare noi stessi per cambiare ciò che ci circonda»

Quattro pareti e una porta. Blindata. Una manciata di passi al giorno per respirare all’aria aperta, distillando i minuti in pensieri, annegati in un tempo indefinito. Le relazioni e gli affetti si sublimano in onde sonore, trasmesse da un capo all’altro del telefono, nell’attesa rarefatta di rompere le regole in un abbraccio.

Anche a Cremona la reclusione temporanea imposta dall’emergenza Covid-19 mette a dura prova chi normalmente non conosce limitazioni, ma la distanza raddoppia per chi vive questa condizione come realtà quotidiana.

Per capirlo basta svoltare in via Ca’ del ferro, nome evocativo che non lascia dubbi sulla destinazione. La struttura cremonese è stata costruita nel 1992, dopo il trasferimento da via Jacini.

Lungo le pareti esterne si aprono finestre ampie schermate da inferriate spesse, tra cui sono incastrate scarpe e indumenti. Talvolta si scorgono le mani intrecciate all’acciaio di chi con gli occhi cerca il cielo, seduto sul davanzale. Osservano “il sole a scacchi”, il volto striato dalle ombre.
«La casa circondariale è destinata a reati comuni, per la maggior parte contro il patrimonio» spiega l’ispettore superiore Pierluigi Parentera. «Qui sta chi è in attesa di giudizio oppure chi ha fatto appello e attende la definizione della pena, in genere non superiore ai cinque anni, anche se il limite è labile e spesso indefinito».

Alle nostre spalle schiocca l’ultima serratura, oltre cui scorre la vita di 480 uomini. Per loro il mondo rimane al di là una serie di porte, quasi a sottolineare come la libertà non sia uno spazio ma un concetto rarefatto, solido solo nel momento in cui viene sospeso.

All’interno, gli ambienti hanno l’odore neutro dei luoghi di passaggio e un retrogusto di pittura, enfatizzato dai murales colorati che occupano diverse pareti. «Il padiglione non ha più muri bianchi», commenta con un sorriso cortese la direttrice della casa circondariale Rossella Padula, accompagnata dal capo area trattamento Enrico Leo e dall’educatrice Lucia Monti. «Ogni sezione è caratterizzata da un tema decorativo scelto e realizzato dai detenuti». Il percorso termina nella biblioteca carceraria, una stanza quadrata con i muri coperti di scaffali, stipati di volumi. Narrativa, saggistica, fumetti e libri in lingua straniera, che ricalcano la multiculturalità dei potenziali lettori. Matteo ci accoglie con un saluto cordiale mentre riordina gli ultimi resi. Gli occhi chiari risaltano oltre la montatura verde dal design moderno. Ha capelli cortissimi e ben curati come la barba, un maglione grigio da cui spunta il cinturino laccato rosso dell’orologio. Si occupa del servizio bibliotecario, ma ci serve un attimo di tempo prima di capire che alla fine del suo turno di servizio non lascerà la struttura. Tra le mani ha un thriller dal titolo evocativo – “Tu sei il male” – che ripone con cura su uno scaffale.

«È un bel romanzo: tratteggia il sottile confine tra il bene e il male: nessuno è buono o cattivo, migliore o peggiore. A volte è solo questione di fortuna, spesso si tratta di scelte».

Ciò che lo porta lì è un nodo irrisolto. «Con me stesso – specifica – e l’ho capito stando qui». La mente torna all’adolescenza, «momento in cui non riuscivo ad accettarmi nel confronto con gli altri». Il desiderio di rivalsa germoglia nel tempo, fino alla laurea in economia e finanza, quando tutto ciò che ha imparato diventa lo strumento per costruire il proprio riscatto sociale. Così inizia una vita a massima velocità, fino all’arresto sulla pista di atterraggio dell’aeroporto, mentre tornava da Londra. «Nonostante la buona parola dell’avvocato, le cose non sono andate secondo i piani, ma mi hanno fatto un favore a tenermi dentro. Tre anni fa non ero così libero». Si raddrizza sulla sedia. «Ho capito che ero la prima e unica persona ad essere scontenta di me, al punto di ingaggiare una competizione che giocava al continuo rilancio oltre il limite del lecito. I reati finanziari sono quasi considerati legittimi, socialmente accettabili: quando ne parli non ti chiedono se sei pentito ma se hai tenuto qualcosa da parte».

«Non ti chiedono
se sei pentito
ma se hai tenuto
qualcosa da parte»

Il tempo e le giuste domande cambiano l’approccio: «Tu non pensi mai alle tue vittime? Me lo chiese un’educatrice, inizialmente risposi di no. Sono banche, istituti, organizzazioni… ma poco alla volta iniziai ad andare oltre e ad immaginare le persone che ne fanno parte. Anche se non ha un volto, la vera vittima è la società. Ne fai parte anche tu, che ti consideri tra i giusti ma in realtà non sei l’eccezione».

Lancia uno sguardo al capo area. «Il reato rompe il patto di cittadinanza, occorre mediare e rimediare. Trasformare noi stessi per cambiare ciò che ci circonda». Fermarsi, fare pace, sciogliere i grovigli interiori e riallacciare i legami strappati. A partire da quelli rimasti oltre le sbarre. «Il momento più duro è stato la separazione forzata da mia moglie. Io in carcere, lei ai domiciliari. Sei mesi di silenzio senza alcuna possibilità di contatto, che ci hanno paradossalmente uniti più di prima». I nodi che restano sono quelli che contano: «Molte persone che conoscevo mi hanno scritto lettere, compresa la mia famiglia. A nessuno di loro importava il denaro o la bella vita, volevano solo la mia felicità».


Uno scatto metallico annuncia l’ingresso di Gianluca, ventiquattro anni e una polo blu che lascia scoperti gli avambracci tatuati. La barba castana e folta incornicia il volto giovane, caratterizzato da una cifra in numeri romani tatuata sotto l’occhio destro. Una parola d’inchiostro nero segue la linea del sopracciglio sinistro: Liberdad.

Per lui l’esperienza del carcere è iniziata tre anni fa. «Quando sei giovane vivi con l’idea che il massimo della vita sia avere ciò che vuoi. Avere di più, essere di più. Essere ciò che non sei». La prima reclusione ha il sapore di una sfida, «in cui vuoi dimostrare di essere più duro di chi ti ha messo dentro». Nel suo caso si conclude con un blitz interno alla casa circondariale che gli costa una nuova condanna e il ritorno in cella, dove potrebbe rimanere ancora per cinque o sei anni. «Dipende dal processo di appello» spiega, elencando sulla punta delle dita le udienze che lo separano dalla condanna definitiva. «Mi sto perdendo tanto» sospira. «Quando è possibile mia sorella viene a trovarmi con i nipoti, ma a loro dico che sono un educatore e che lavoro qui, sono troppo piccoli per capire». Si passa una mano sulla testa rasata. «Siamo le prime persone fragili, che non accettano regole e ne creano altre». In strada come in carcere.

«Il primo mese è il più duro» aggiunge Matteo. «L’imperativo è sopravvivere. Ci si sente così deboli che diventa indispensabile costruire una maschera per sembrare forti. La persona non è mai il reato, ma spesso ci si identifica con ciò che abbiamo fatto per essere qualcuno, per il timore di aver perso se stessi». Sta alla sensibilità di ognuno riuscire a gettare la maschera. «Forse è la cosa più difficile, soprattutto tra detenuti, dove sei il tuo reato e vivi quanto la tua condanna».

Gianluca annuisce. «Qui dentro ogni emozione è amplificata, qualsiasi forma di supporto è oro» e lancia un’occhiata agli operatori seduti all’altro lato della stanza. Basket, teatro, lezioni di chitarra, fotografia e scenografia: le sue giornate sono riempite di attività per il bisogno di non stare fermo, di non pensare. «La sera però arrivano i pensieri… e ci sprofondi». Con voce cupa abbassa gli occhi castani e si strofina il gomito destro, sbucciato probabilmente sul campo sportivo.
Sono i momenti in cui la reclusione preme le tempie e i muri diventano più spessi, le distanze più dense. In condizioni normali, i contatti con il mondo esterno consistono in sei ore di colloquio mensili e una telefonata a settimana, da gestire secondo le proprie necessità.

La regola cambia nei giorni dell’epidemia: gli abbracci diventano virtuali, il calore non è altro che una voce filtrata dal ricevitore, senza possibilità di contatto. Nell’aria rimane un vuoto pneumatico che rimbomba come i corridoi del penitenziario, dove «il tempo è spazio per riflettere, per cambiare. Per me stesso e per chi c’è fuori». Il punto di partenza è convertire il tempo dell’attesa in opportunità: lo sono i corsi di scrittura e di filosofia, gli incontri con i ragazzi degli istituti superiori e i legami creati con gli educatori. Lo è ogni possibilità di evasione mentale, come la letteratura. «Pochi hanno letto in passato e spesso mi chiedono consigli» svela Matteo. «Se racconto una storia si fidano. È successo con un libro sulla poetessa Alda Merini, l’ho regalato ad un detenuto che se n’è innamorato e ha voluto donarlo a sua moglie, con una dedica in copertina». Molti detenuti scrivono, soprattutto poesie. «Io preferisco le fiabe o i racconti: ho due inediti nel cassetto, pronti da pubblicare». Da qui l’idea di organizzare momenti di racconto e scambio tra detenuti, coinvolgendo autori e scrittori locali.

La condivisione diventa l’appiglio per vivere diversamente la convivenza forzata, «che è pur sempre una convivenza», sottolinea Gianluca. Con i detenuti e con gli agenti penitenziari.«Anche con loro si parla, ci sono ragazzi che hanno la mia età». Li separa solo l’uniforme e un destino a senso inverso.

«Da quindici anni infrango regole di continuo. Stando qui ho rivalutato molte persone che pensavo fossero amici. Quando il piatto è pieno, tutti vogliono mangiare. Quando c’è da sparecchiare, tutti spariscono». Stringe i pugni. «Ma ora ho la possibilità di essere perdonato. Qui puoi cambiare, inserirti, ricominciare, anche se non hai mai cominciato nulla in vita tua».

«Qui puoi ricominciare,
anche se non hai
mai cominciato nulla
in vita tua»

Anche per Matteo i progetti non mancano: «Senz’altro sarà qualcosa di ben diverso da ciò che mi ha portato qui», afferma con un sorriso ironico. Tra i sogni nel cassetto, il rilancio di una testata giornalistica dedicata a tematiche sociali, una collana di pubblicazioni «per dar voce a chi solitamente non ne ha» e un progetto di cantastorie, fatto di letture e momenti d’incontro aperti al pubblico. A fine anno chiederà l’affidamento ai servizi sociali, poi sarà tutto da scrivere. «Ho sempre pensato la vita come una successione di fasi: fino ai vent’anni ho studiato, fino ai quaranta ho fatto un lavoro che mi piaceva, ma era borderline… e mi ha portato qui. Ora inizia il mio terzo tempo». Primo passo: «Impedire agli altri di fare le stesse sciocchezze. Vorrei far capire che è possibile cambiare il corso delle cose, partendo da un viaggio dentro se stessi». Una filosofia che strizza l’occhio a “L’Alchimista”, il suo libro preferito.
Dal canto suo, Gianluca vorrebbe intraprendere un percorso comunitario in ambito socio-assistenziale, per poi farne una professione. «Voglio puntare più in alto: se qui posso fare bene, pensa là fuori!». Scherza, ma subito si scurisce in volto. «Il bivio è sempre lì: posso scegliere una vita regolare con chi mi ama, magari farmi una famiglia… Oppure continuare con una goliardia che non mi ha portato da nessuna parte, se non qui».

Il nodo al fazzoletto lo fa l’esperienza, «per non essere più come prima e non cedere all’abitudine del carcere». La voce si fa più decisa. «Se vuoi, lo fai», ripete come un mantra. Aprile è il mese del suo compleanno. «Alcuni non festeggiano, io sì. Anche se sono qui fermo. Per me questo è sempre vivere».