silenzio
N.05 Novembre 2019
Tarquinio: «Quello che le notizie non dicono»
Intervista con Marco Tarquinio direttore di "Avvenire": «Il silenzio dell'informazione è momento di riflessione E poi c'è quello colpevole che dimentica le vittime"
Viviamo un tempo (e in un Paese) in cui a prevalere è una «informazione agli estrogeni». La definizione è di Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, con cui abbiamo scambiato qualche idea su ciò che resta del silenzio nel flusso onnivoro e travolgente della comunicazione.
Siamo sovraesposti, come trapassati dalle news gettate nell’etere come dardi puntati verso un obiettivo: come può esistere (o resistere) un valore al silenzio?
«Possiamo dire che il silenzio informativo oggi coincide con lo spazio dell’approfondimento e della riflessione. Uno spazio che sembra essere irrimediabilmente rimosso nella corsa vorace al consumo di notizie. E di persone. Perché sono le persone la carne, il sangue e l’anima delle notizie che diamo. Perciò questo spazio va custodito: noi ci proviamo, non siamo soli. In pochi forse. Ma non temiamo di andare contro corrente».
Una corrente a cui però il pubblico – dei giornali, delle tv, del web – è ormai abituato, quasi soggetto. Che succede se nessuno chiede più un altro stile? Se il “silenzio” non ha più mercato?
«Mai prendere i lettori o gli spettatori come alibi. C’è una responsabilità propria di chi fa informazione in modo professionale. Non possiamo arrenderci e dire: “è quello che vuole la gente”. Siamo noi a creare un clima. E qualora ci fosse una domanda prevalente di un’informazione clamorosa, a Roma diremmo caciarona, noi dobbiamo saper resistere e mostrare che c’è un altro modo, che è l’unico modo per rendere distinguibili le cose. Il clamore è come una nebbia: alla fine non consente più di vedere gli esatti contorni delle cose e delle persone».
Come ci si difende, o forse si contrattacca, di fronte alle urla, all’istintività, alla rissa… C’è una tecnica di sopravvivenza per chi cerca un’informazione differente?
«In uno dei suoi ultimi messaggi per la Giornata delle Comunicazioni sociali, Papa Benedetto ci ha invitati a riflettere sullo spazio del silenzio dentro la comunicazione. Sembra un paradosso, ma io credo sia parte di uno stile informativo sensato e utile perché basato sull’idea del rispetto: rispetto per i fatti, per le persone e per le parole. Bisogna saper usare le parole che servono: non una di più e non una di meno (soprattutto, in questo tempo che stiamo vivendo, direi non una di più)».
Questo significa scegliere. Un direttore quotidianamente si misura con la necessità di decidere con la sua redazione cosa mettere in pagina e cosa no. Che cosa si può o si deve preservare dal flusso inarrestabile di notizie?
«Bisogna preservare l’essenziale, ovvero ciò che davvero aiuta le persone a capire il tempo che stiamo vivendo, a che punto sono il giorno e la notte nella vita del mondo, degli uomini e delle donne. Per fare questo bisogna aver molto chiaro che il menù informativo che noi confezioniamo è importante tanto quanto le singole notizie, i singoli ingredienti che ci mettiamo dentro. Già il menù informativo che proponiamo è una notizia. E può essere esso stesso una fake news».
In che modo?
«Nel momento in cui noi ci concentriamo quasi del tutto sul lato oscuro della realtà, ignorandone quello chiaro, produciamo una deformazione drammatica: conduciamo lo sguardo delle persone in una direzione deformante. Ci sono esempi molto chiari: l’Italia ha certo problemi di sicurezza ma è il Paese più sicuro d’Europa. Lo dicono i dati dei delitti in calo costante. Eppure un menù informativo, soprattutto televisivo, fatto per oltre il 54% da notizie di cronaca nera (nei Paesi europei si oscilla tra il 9 e il 18%, secondo i dati dell’Osservatorio europeo sulla sicurezza), fa sì che ci sia nella società un allarme in crescita costante, come se fossimo sotto assedio permanente. C’è una narrazione prevalente che conduce ad una deformazione dello sguardo e del sentimento (o del risentimento), che abita nel cuore della gente».
Un effetto distorsivo che i social network talvolta amplificano con l’illusione di un mondo fatto di opinioni istintive, spesso non argomentate, quasi sempre conflittuali. Ma è davvero così fuori luogo oggi fermarsi semplicemente ad osservare per capire prima di gettare in pasto alla rete la propria opinione “a caldo”?
«Per chi fa il mio mestiere la priorità è rispettare i fatti per ciò che sono e proporli perché siano osservati nella loro verità. La nostra scelta strategica è però anche quella di mettere la nostra opinione accanto ai fatti che lo meritano. Accanto i fatti e non sopra i fatti, non incrostandoli con la nostra opinione fino a renderli irriconoscibili. Questo è il rischio di una certa informazione militante, ma anche del dibattito che si sviluppa sui social. Detto ciò saper ascoltare e saper osservare è una virtù. Non per niente Papa Francesco ci ha ricordato apertamente che “la realtà è superiore all’idea”. Questo è il punto decisivo: quando le idee deformano la realtà fino a sfigurarla, bisogna fare silenzio, fermarsi davanti ai fatti per capirli fino in fondo».
Proprio perché la realtà è complessa, anche il silenzio nell’informazione ha anche però un suo “lato oscuro”. Quello dei silenzi colpevoli: ciò che la cosiddetta comunicazione mainstream tace per interesse o convenienza?
«Certo, il silenzio è colpevole quando esclude una parte della realtà perché scomoda o non funzionale. Torno all’esempio precedente: si parla solo di ciò che è negativo, così il “lato chiaro” della vita oggi sembra soltanto il rosa del gossip o l’oro dei ricchi e famosi. Sembra che le persone che abitano e rendono vivo questo lato chiaro sembra non abbiano cittadinanza nel mondo dell’informazione. La rottura del silenzio su quelli che fanno la cosa giusta dovrebbe avere spazio regolarmente, non solo in piccoli spazi recintati. Ma non solo. C’è un altro silenzio colpevole: quello sulle vittime, escluse dai titoli forti perché non hanno voce».
A chi pensa?
«Penso a volti. Ai quelli dei bimbi che non nascono perché qualcuno li ha considerati scomodi; a quelli delle vite migranti perché siamo tutti in cammino su questa terra, ma oggi pensiamo che qualcuno non possa permetterselo: se sono poveri o con la pelle scura sono irregolari e destinati alla clandestinità. Lo Stato ha diritto a darsi regole, ma resta un livello di umanità che non può essere dimenticato. C’è poi la vita di uomini e donne che lavora in un tempo in cui le macchine e le tecnologie sembrano sostituire sempre di più l’azione umana: allora bisogna pensare non solo a ciò che si produce ma anche a cosa si produce nella vita delle persone, a quale sarà il posto degli uomini e delle donne nel futuro, quale dignità nel loro lavoro».
È come se nei grandi temi del dibattito nella nostra società, portino con loro dei segreti tenuti ai margini del pensiero pubblico. Quasi nascosti.
«Ma ci sono anche altri volti su cui cala un silenzio colpevole e che sono molto vicini a noi: sono i poveri e gli impoveriti nelle nostre città, che vivono la sofferenza con grande dignità tanto che spesso non ce ne accorgiamo. Se nessuno ne parla rischiamo di non vedere quanto verticale e profondo possa essere il pozzo delle disuguaglianze nei nostri quartieri».
E per lei, direttore? Che spazio trova il silenzio nella sua vita fatta di parole?
«Penso alla preghiera. Ma a quella che si trova all’improvviso guidando o in una pausa al lavoro. Ma penso anche che il mio spazio di silenzio sia quello della stanchezza. Se uno vuol fare il direttore ma vuole continuare a fare il giornalista a volte è stremato. E in quello spazio si apre una finestra del silenzio. E lì parla qualcun Altro, che è Dio. Ma parla attraverso un collega che dice la frase giusta, o attraverso tua moglie o tua figlia… Ecco: il silenzio è la parola dell’altro. Con o senza la maiuscola».