silenzio

N.05 Novembre 2019

NELLA RETE

Il silenzio multiforme delle solitudini connesse

Jacopo Franchi ha presentato il suo libro a Cremona e ci ha concesso una chiacchierata tra gli aspetti più oscuri e (impossibili?) le vie di fuga dalla rete dei social

foto di Lucrezia Carnelos (Unsplash)

Interno abitazione privata, notte. Una famiglia come tante, in salotto una televisione accesa, cui padre, madre e figli sembrano non dare ascolto. Sono tutti chini sui loro dispositivi a giocare, chattare, scorrere la timeline della loro piattaforma social preferita, a consultare le email o chissà cos’altro. Nella stanza non c’è silenzio, ma è la tv ad emettere gli unici suoni, che ogni tanto qualcuno intercetta e commenta, per sé stesso e per chi voglia eventualmente interagire o replicare.
Una scena comune, in questa nostra società dominata dalla rete e dai suoi canali. Una scena non nuova, a dire la verità, perché prima del web a dominare la scena c’era già la tv, prima di essa la radio e prima ancora i giornali e i libri, pur con tempi e modalità di fruizione differenti e spesso meno invasivi e alienanti.
Certi silenzi in molte case c’erano già, saremmo ipocriti a nasconderlo; tuttavia oggi siamo di fronte ad un silenzio diverso, che Jacopo Franchi, esperto di comunicazione e autore di Solitudini connesse. Sprofondare nei social media, descrive in tutte le sue sfumature e forme. È un saggio sulla condizione socio-mediale dell’umanità contemporanea, quello di Franchi, che analizza a fondo le dinamiche che portano le persone a isolarsi sui social, ma al tempo stesso a cercare disperatamente occasioni di socialità “disconnessa”.
In questo silenzio rumoroso fatto di post, di selfie, di stati e di interazioni in rete, sembriamo ormai imbrigliati nella gabbia dei social media e non riusciamo ad immaginare il nostro futuro senza di essi. Una gabbia in cui si perdono le nostre parole, che scorrono come fiumi, talvolta impetuosi e rabbiosi quando siamo online e diventano spesso silenzi, quando dobbiamo affrontare la vita fuori dalla rete, tanto da nasconderci dietro gli smartphone per incapacità di comunicare senza quel filtro. Ma perché non riusciamo a staccarci definitivamente da questi strumenti, come pure qualcuno ha già provato a fare, spesso tornando poi indietro per non restare isolato?
«In concomitanza con l’uscita del mio libro, all’inizio del 2019, uno studio di We Are Social e Hootsuite indicava chiaramente come molti utenti (quasi uno su quattro), piuttosto che cancellarsi dalle piattaforme, si limitassero a visualizzare i contenuti altrui, in “silenzio”, senza interagire», conferma Franchi.
Anche chi decide di abbandonare del tutto i social tuttavia, alla lunga non resiste e sente il bisogno di riaffacciarsi su queste piattaforme: «Non si tratta soltanto di un’impressione, ma di qualcosa che sembra confermato anche nel piccolo dei dati di cui posso disporre. Uno degli articoli più letti in assoluto sul mio blog, Umanesimo Digitale, si chiama “Il prezzo di vivere senza social”, e a distanza di tre anni dalla sua pubblicazione fa quotidianamente registrare numeri altissimi, la maggior parte dei quali provenienti da ricerche fatte su Google da utenti che visitano il sito per la prima volta. Queste persone non cercano risposte su come cancellarsi dai social, ma al contrario chiedono – al motore di ricerca – se è ancora possibile vivere senza di essi».
A poco più di dieci anni dalla loro affermazione, per molti i social media sono dunque oggi non più semplicemente un’opportunità o una scelta, ma qualcosa di cui non si può fare in meno.

«Stare in silenzio per ore
non è più un tabù
Difficile dire se sia un bene o un male,
ma è quello che sta accadendo»

«Da parte mia cerco sempre di non esprimere giudizi sul rapporto delle persone con i social e sui silenzi o gli isolamenti che essi determinano, perché è impossibile sapere cosa ci sia dietro a queste situazioni, apparentemente simili ma profondamente diverse per ciascuno», continua Franchi. «In molti casi è vero anche il contrario, però. Ci sono molte persone che si conoscono da poco, che fanno fatica a rompere il ghiaccio: i social offrono a questi ultimi la possibilità di avvicinarsi in modo graduale, di superare la reciproca timidezza».
Secondo Franchi si stanno creando due diverse forme di silenzio: una esterna ai social, l’altra tipica di queste piattaforme. «Ciò che possiamo notare è che esistono oggi coppie, gruppi di conoscenti o di amici e contesti familiari in cui stare in silenzio per ore non è più un tabù. Difficile dire se sia un bene o un male, ma è quello che sta accadendo».
C’è però anche un silenzio fisiologico delle piattaforme social, che ci spingono per lo più a scrivere, anziché parlare, cosa che sta certamente avendo un impatto sulle nostre relazioni, come prova chiaramente il successo delle applicazioni di messaggistica a scapito del telefono. È pur vero che, da qualche tempo, su queste si possono anche scambiare messaggi vocali, ma non sono pochi quelli che li detestano e che preferiscono invece chattare in forma scritta.
«Gli stessi video vengono quasi sempre pubblicati sui social con i sottotitoli, proprio perché c’è un gran numero di persone che li guarda senza audio», magari perché sono in ufficio o perché non vogliono disturbare gli altri, in casa o nei luoghi pubblici.
«Difficile dire cosa resti di umano, dopo queste enormi trasformazioni» riflette Franchi. «Si tratta comunque di qualcosa che ha un impatto non soltanto culturale, ma che coinvolge tutto il nostro essere, portandoci a non utilizzare più tutti i nostri sensi, durante il tempo riservato alle relazioni. Oggi usiamo molto più la vista, continuamente sollecitata per leggere, scrivere, guardare. Da qui, probabilmente, quel senso di privazione e di incompletezza che ci avvolge quando ci relazioniamo sui social».
Si tratta sempre di silenzi rumorosi, tuttavia. Forse addirittura ingombranti, se pensiamo a come, un tempo non lontano, le parole, gli sguardi, il tocco delle persone tendevano a scivolare via, lasciandoci focalizzare solo sulle interazioni più rilevanti, mentre oggi ogni nostra parola è scritta e resta sulle piattaforme per essere letta, valutata, riletta, soppesata. «Questo ci dà l’illusione del controllo assoluto e risponde probabilmente all’esigenza dell’essere umano di proteggersi e di controllare ogni cosa. I social in questo senso sono una sorta di gabbia protettiva e di scudo per ognuno di noi, che a volte ci fanno credere di essere in contatto con moltissime persone, che però per lo più svaniscono dopo aver spento i nostri dispositivi».