parole

N.24 Ottobre 2021

MEDICINA

«Tornano a parlare e mi dicono: “Mi ha salvato la vita”»

La dottoressa Beatrice Arpino racconta il suo lavoro da logopedista: «Ho deciso che avrei fatto questo mestiere fin da piccola: il mio cuginetto balbettava e gli altri bambini lo prendevano in giro e io volevo aiutarlo a parlare bene»

Cosa vorresti fare da grande? La maestra, la veterinaria, la cuoca. No, la logopedista. Beatrice Arpino ha 33 anni ed è logopedista al Servizio di Riabilitazione specialistica dell’Asst di Cremona. Dopo la laurea in Logopedia, ha svolto l’attività in ospedale come libera professionista e nel 2020 ha vinto il concorso. In questi mesi è a casa in maternità, ma sta già progettando il suo rientro tra la ripresa dell’attività nei reparti e nell’ambulatorio, le due cattedre universitarie in riabilitazione neurologica e deglutizione nel corso di Fisioterapia e la sua terza laurea in Scienze riabilitative.
«Ho sempre voluto fare questo lavoro – comincia Beatrice – Mio cugino, Angelo, che ha la sindrome di Down, balbetta. Da piccolo veniva spesso preso in giro. Fin da bambina mi arrabbiavo tanto per questo e avevo il desiderio di aiutarlo. Volevo che smettesse di balbettare, volevo aiutarlo a parlare bene».

All’ospedale, se si escludono i professionisti della Neuropsichiatria infantile che lavorano con i bambini, è l’unica logopedista. «All’inizio ero molto spaesata – ricorda Beatrice – Ho sempre pensato che avrei lavorato coi bambini e che gli adulti non fossero proprio il mio campo. Poi mi sono fatta le ossa. Anche grazie ad una rete di colleghi con cui è indispensabile il confronto».

I pazienti che incontra hanno dai 18 anni in su e problematiche linguistiche, cognitive o deglutitorie. Sono persone che, a causa di ictus, traumi o malattie, non parlano o faticano a parlare. «Perdere le parole è un’esperienza terribile, che ti destabilizza – dice Beatrice – Abbassa la qualità della vita. Quando non riesci a farti capire nemmeno nei bisogni primari, cioè non riesci a dire nemmeno “Ho sonno” o “Voglio una carezza”, ti manca la terra sotto i piedi. Ti senti in prigione. La parola è lo strumento più forte che abbiamo per comunicare. Una parola può ferire, un’altra può salvare. Lo diamo per scontato e quando viene a mancare c’è un senso di solitudine, di isolamento».


Ma come funziona il suo lavoro? Beatrice viene chiamata dai medici e interviene in vari reparti: si occupa di pazienti in fase acuta o post acuta, con diverse metodologie e strumentazioni. «All’inizio c’è sempre una valutazione – spiega Beatrice – più o meno strutturata a seconda delle condizioni del paziente con semplici domande o veri e propri test. Poi c’è il confronto con il medico e la definizione del percorso di cura. Spesso sono io che vado nei reparti perché sono pazienti che non possono muoversi».
L’attività di Beatrice è anche ambulatoriale o in day hospital con pazienti cronici. Afasie, disartrie, disfonie. Le problematiche sono davvero variegate. «Il trattamento è su misura del paziente – continua Beatrice – Gli strumenti che utilizzo sono immagini e schede che spesso costruisco io per stimolare il linguaggio, la lettura, il calcolo, ma anche la concentrazione e la memoria. Ci sono anche dei programmi sul computer che si possono usare…». Se diversificati sono i metodi, altrettanto diversi i benefici.

«Quando non riesci nemmeno
a dire “Voglio una carezza”
ti senti in prigione»

«Non sempre raggiungo i risultati che vorrei raggiungere – ammette Beatrice – Le variabili in gioco sono davvero tante. Prima fra tutte la motivazione del paziente. E spesso, per esempio dopo un ictus, le persone, che vedono la loro vita stravolta, faticano a trovare la voglia di mettersi in gioco. Di solito a prima reazione è la rabbia, poi c’è lo sconforto. Con delle eccezioni ovviamente. Mi ricordo un imprenditore di 50 anni che dall’oggi al domani si è ritrovato sulla carrozzina, senza poter parlare come prima e con la parte destra del corpo immobilizzata. Sbagliava le parole, diceva parole che non c’entravano nulla con la frase. Ce l’ha messa tutta nel percorso e ha recuperato».

«Quello che faccio io è mettermi nei panni del paziente, senza giudizio, e cercare di far capire quanto la sua collaborazione sia importante: solo in questo modo posso aiutarlo. Rispettando i suoi tempi e i suoi spazi». Altre variabili nel percorso di cura sono l’età, la scolarità, la qualità del trattamento, la fiducia nel professionista e la rete di supporto. «Questa è indispensabile – sottolina Beatrice – Non è l’ora di trattamento che fa la differenza, ma la continuità. E nella continuità la famiglia o il caregiver sono fondamentali. Ho conosciuto figli stupendi che si mettevano loro con i genitori a fare gli esercizi a casa. Ho avuto mogli stupende e anche mariti stupendi».
«Ridonare la parola al paziente – conclude Beatrice – è come ridare la vita, a lui e alla famiglia. Certo non è un’operazione chirurgica, ma vuol dire ridare alle persone la libertà di esprimere ciò che hanno dentro. Professionalmente e umanamente è una soddisfazione enorme. In tanti alla fine del percorso dicono: mi hai salvato la vita. Questa enorme riconoscenza fa capire quanto importante sia per le persone la parola».